Recensione: Over Dianam
Il progetto “Feralia” è il risultato dell’ispirazione di un trio di ragazzi di Torino, che ha deciso di creare un vero e proprio percorso artistico, iniziando dal macro argomento dello scontro interiore con le proprie paure, incertezze e fragilità; insomma il peccato originale dentro di noi che ci rende “umani, troppo umani”. Partendo da questo presupposto i nostri hanno pubblicato un primo full lenght, chiamato “Helios Manifesto”, iniziando tale evoluzione con l’espressione della crescita interiore dell’uomo che lo fa diventare “dio” di sé stesso, padrone del seminale inizio del proprio Io. A ciò segue il lavoro che oggi andremo ad analizzare, ovvero “Over Dianam”, inteso come prima parte di quello che potremmo definire un concept nel concept, dato che verrà seguito da un full lenght che avrà il nome di “Under Stige“.
L’EP è breve, ma in poco più di un quarto d’ora racchiude ciò che tanti gruppi dozzinali non riescono a creare in album ben più corposi e pesanti. La title track, che apre l’opera, è caratterizzata da un arpeggio molto gradevole e delicato. La voce però in certi momenti, (soprattutto all’inizio) è un po’ da rivedere, nel senso che nel rendersi (volutamente) grassa in maniera artificiosa sembra perdere timbrica e quasi stonare. Questo risulta evidente nella prima parte del brano, poi via via sembra si siano prese le proverbiali misure e tutto fila liscio.
“Arthemide” comincia sulla falsa riga del brano precedente, con una voce quasi cerimoniale accompagnata dal solo suono della chitarra. Qui viene fuori una caratteristica distintiva dell’opera: il minimalismo. Gli strumenti sono ridotti all’osso, ma è un minimo che non significa scarno, piuttosto vuole essere essenziale. Questa idea, coadiuvata dall’ispirazione delle composizioni (semplici ma “giuste” nelle tempistiche e nelle sequenze armoniche), rende l’atmosfera molto intima e sensibile, in grado di generare quindi empatia ed emozioni in qualunque tipo possibile di fruitore del prodotto.
In “The Altar and the Deer” la base rimane coerentemente la stessa, ma stavolta la voce risulta un po’ sussurrata, quasi narrante, come ci può capitare di ascoltare in alcuni brani dei Pink Floyd (viene in mente High Hopes). Sempre buono il lavoro alla sei corde: esse vengono pizzicate nel momento giusto, la melodia si prende i suoi tempi per toccare l’ascoltatore. Questo porta una piacevole tranquillità, amena seppur con un velo malinconico. La composizione è molto toccante qui: si fa spazio in sottofondo anche un synth, che serpeggia fra i basici suoni che compongono il brano come la tristezza, che prima o poi ci assale senza clamore, anche dopo momenti di incontenibile felicità, e perché no, a maggior ragione dopo di essi.
L’EP si chiude con “Green omen”, ed un ruscello che accoglie una voce femminile recitante un monologo in latino, con il solito arpeggio a sostegno. Qui l’atmosfera sembrerebbe più bucolica e apparentemente felice, sia nei toni musicali che vocali. Ma in realtà la musa che canta attorniata dal fresco suono della natura, pronuncia quello che sembra un epitaffio sulla tomba della coscienza del genere umano, che protetto da sorrisi, strette di mano e completi firmati sembra aver perso ogni tipo di consapevolezza. La dicotomia fra sonorità e messaggio che crea questo brano finale è lacerante, e perfetta sintesi dell’ipocrisia moderna.
“Oh miseras hominum mentis, oh pectora cieca”