Recensione: Over the Horizon Radar

Di Fabio Vellata - 18 Giugno 2022 - 1:00
Over the Horizon Radar
Band: Jorn
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2022
Nazione:
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80

Piaccia o meno, un nuovo disco di Jorn è sempre un momento saliente della stagione discografica legata all’hard rock.
Iconico, prorompente, incisivo, il cantante norvegese ha costruito negli anni una solida fan base che, al netto di un certa staticità di fondo delle sue uscite, lo ha sempre seguito con interesse e favore.

Sono tanti ormai gli album solisti griffati dal vichingo urlante: con “Over The Horizon Radar” fanno dieci. E le critiche mosse al buon Jorn, sempre le stesse. Talentuosissimo ed in possesso di corde vocali monumentali. Ma con un songwriting appiccicato alle canzoni che non ha mai davvero reso giustizia a tanta grazia espressiva.
Provaci ancora Jorn: con il decimo solo album, il rito si ripete ed il carosello di potenzialità immani rimane invariato. Rispetto al già interessante “Life on Death Road”, s’incrementa però il valore del livello di scrittura, centrando due, tre brani di alta fascia.
Al punto da rendere la nuova fatica di Lande come, probabilmente, una delle migliori in carriera.

Un amico prezioso, nel darci qualche imbeccata sulla forma che avrebbe preso “Over the Horizon Radar”, ce lo aveva descritto come molto oscuro e dagli insospettabili toni progressivi. Quell’amico, autore di molti dei pezzi in scaletta e noto con il nome di Alessandro Del Vecchio (sempre lui!), diceva il vero: la struttura di alcune tracce tende un po’ al prog. La lunghezza si è dilatata e le atmosfere hanno preso una piega diversa dal solito hard rock assimilabile ai classici Purple, Rainbow e Dio.
C’è più varietà: l’amalgama, ancorché incupita nei toni, offre l’idea di rinnovata freschezza ed ossigena l’ascolto, rendendolo più dinamico di quanto sperimentato solitamente.
Con qualche passaggio che, oltretutto, inviata ad alzare il volume.
Un esempio? La rapida “Winds of Home”: voce stellare su di un tappeto semplice di tastiera e chitarra che conducono la melodia. Ascoltarla in cuffia, a palla, è una goduria.
Un album che può fregiarsi di alcuni momenti topici, si diceva. La stessa title track è un gran bel biglietto da visita che presenta dignitosamente il nuovo cd. Ma è con “Dead London” che si toccano vette di rado sentite in una produzione del norvegese con la voce carnivora.
Bellissima: una canzone carica di pathos, densa di parti strumentali e con una melodia straripante. Forse solo in un paio di episodi di “Worldchanger” – il secondo album solista di Jorn, datato 2001 – avevamo trovato medesima soddisfazione.
Niente male anche “One Man War”, “Ode to the Black Nightshade” e la darkeggiante “In the Dirt“. C’è materia da apprezzare: suoni, intrecci, ritornelli e verve strumentale.

In chiusura si segnala poi “Faith Bloody Faith“, brano con cui il buon Jorn nel 2021 ha tentato la fortuna nella perigliosa ed imprevedibile arena dell’eurovision contest, candidandosi senza grossi esiti per la natia Norvegia.
Dopo aver ascoltato molte delle canzoni passate abitualmente dalla rassegna senza particolari “brividi” di emozioni (ogni riferimento non è per nulla casuale), possiamo comodamente dire che anche la vigorosa canzoncina Landiana avrebbe potuto starci senza grossi problemi.
Ma si sa, quelli sono palcoscenici che tradizionalmente non amano più di tanto tutto ciò che ha una vaga parvenza di metallo.

In generale insomma, un disco di buona qualità che migliora le già decorose prospettive del precedente (ed un po’ remoto) cd in studio.
Avanti così: passo dopo passo, chissà mai che prima o poi arrivi ‘sto benedetto capolavoro.

 

 

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