Recensione: Overloaded
Geni di casa nostra.
Vantiamoci ogni tanto. Almeno dove ci è possibile farlo.
Attualmente, non è certo il campo musicale della nostra penisola a mostrarsi scarso in termini di artisti di qualità, strumentisti di valore e personaggi di spicco. Sono numerosi, infatti, gli elementi che in questo scorcio di nuovo millennio hanno saputo mostrare buone cose, utili a portar lustro alla destrezza dei musicisti tricolori: una fucina che un po’ in tutti gli ambiti ha potuto esprimere eccellenze in grado di competere a livelli non proprio pensabili sino a qualche anno fa, internazionalizzando una scena divenuta sempre più ricca di ottime proposte.
Tra i principali artefici di questo ribollente movimento sin dagli albori del 2000, Alberto Rigoni, bass player tra i più versatili ad oggi sulla breccia, merita senza alcun dubbio una menzione di massimo riguardo.
Attivo su più fronti, immerso in una ricerca sonora che da sempre rifugge catalogazioni troppo strette ed asfittiche, l’artista trevigiano ha mostrato sin dagli esordi doti superiori ed assoluto eclettismo, tanto da giungere a collaborazioni di grande prestigio suggellate in una produzione considerevolmente cospicua.
Accanto all’incessante lavoro di session e di membro fisso all’interno di vere e proprie band (da ricordare con particolare appunto, Twinspirts e Vivaldi Metal Project), le maggiori e più fascinose esperienze in studio sono tuttavia da sempre fruttate in territori solisti, con la release di una serie di album all’interno dei quali dar libero sfogo alla propria essenza musicale più sincera, rendendola libera da forzature o canoni precostituiti.
“Overloaded”, quarto – nuovissimo – capitolo di una “collana” inaugurata nel 2008 con “Something Different”, si prospetta come una sorta di prima “chiusura del cerchio” nella carriera di Rigoni, ora sempre più lontano dall’arido ed autoincensatorio sfoggio di mera tecnica degli esordi, a pieno vantaggio di uno stile divenuto finalmente maturo, pur nella propria natura “elitaria”.
Capace cioè di offrire partiture strumentali caratterizzate da sopraffina maestria strumentale, mescolate con lampi di buona orecchiabilità, atmosfere di elegante raffinatezza prog, ed un impianto complessivo che riesce a rendersi accattivante e gradevole. Alla vista – per mezzo di una confezione molto curata – così come all’udito – grazie ad una selezione di brani imponenti nella struttura tecnica, eppure scorrevoli e forieri di sensazioni stimolanti.
Incentrato come da titolo, sulla criticità dell’epoca attuale, in cui ognuno è “sovraccaricato” (“Overloaded” per l’appunto) d’informazioni, impegni, servizi e prodotti, il nuovo album è, per stessa ammissione del suo autore, volutamente più heavy e progressive dei suoi predecessori.
Non potremmo – come ovvio – esserne più lieti: lo stile prog metal che anima ed ammanta il cd, aiuta e contribuisce ad ottenere una più facile ed immediata familiarità con le nove tracce proposte, fornendo punti di riferimento essenziali nella sua veloce comprensione.
Le atmosfere finemente prog della title track “Overloaded” ad esempio – uno degli highlight del disco – rammentano i trascorsi di Rigoni nelle vesti di emulo dei Dream Theater (con gli Ascra, cover band proprio dei DT), mentre la più sinuosa, cerebrale e sintetica “Floating Capsule”, pone in risalto il versante più meditativo dell’offerta prog elaborata dal bassista trevigiano.
Le follie nervose e contraddittorie di “Chron” e “Corruption”, abili nel descrivere emotivamente le stravaganze di una società sempre in bilico sull’orlo dell’esaurimento, si pongono invece in secondo piano rispetto alla performante orecchiabilità di “Ubick”, pezzo dotato di un refrain trascinante e brioso.
Preceduta da “Multitasking”, una sorta di intermezzo che un po’ ci ricorda lo Steve Vai di “Flex Able” (e dire che qui stiamo parlando di quattro corde e non sette), arriva infine il vero momento superiore del cd, rappresentato dalla incalzante, ruvida ed intensa “Liberation”.
Come lo stesso titolo vorrebbe forse suggerire, una liberazione dei sentimenti verso arie più aperte e solari, condite anche questa volta da un incedere che si radica in Rush e Dream Theater, per poi abbracciare un finale ricco di enfasi e meravigliosa leggerezza.
La conclusione, riservata alla bonus track “Glory Of Life”, stilosamente offre un saggio della bravura strumentale di Rigoni, bass player “de luxe”, abile nel confezionare un disco dedicato al suono del basso elettrico – uno degli strumenti solitamente meno considerati all’interno delle band – in cui il basso, dopo tutto, protagonista unico non è.
Al contrario, sono innumerevoli le sfumature che, grazie ad un manipolo di ottimi aiutanti nostrani (tra cui Simone Mularoni e Marco Sfogli, giusto per tornare a quanto detto in apertura), si aprono via, via all’attenzione dell’ascoltatore, arricchendo le potenzialità di un prog album di ottimo valore (dedicato, sia rimembrato, alla memoria del grande Randy Coven), senz’altro apprezzabile non solo dalla ristretta cerchia di addetti ai lavori ed esperti del ramo.
Geni di casa nostra.
E insomma, vantiamoci ogni tanto, no?