Recensione: Pacifisticuffs

Di Roberto Gelmi - 5 Gennaio 2018 - 14:00
Pacifisticuffs
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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83

A chiudere trionfalmente il 2017, anno che non ha fatto mancare buone uscite musicali, i Diablo Swing Orchestra (DSO da qui in poi) propongono il loro quarto studio album, regalo tra i più intelligenti che avremmo voluto trovare sotto l’albero di Natale. Il gruppo scandinavo è ormai attivo dal 2003 e si è guadagnato l’etichetta di band di culto dopo l’album di esordio The Butcher’s Ballroom. L’ottetto di Stoccolma definisce il proprio sound ibrido come “riot opera” e dopo l’apice sperimentale toccato con l’impegnativo Sing Along Songs for the Damned & Delirious, e in parte con Pandora’s Piñata, oggi propone un album meno avant-garde, ma comunque eclettico e convincente.
Pacifisticuffs è già un programma se consideriamo il titolo e l’artwork. Il titolo significa in gergo all’incirca “pugni/schiaffi dati da una persona pacifica”, mentre la copertina è visionaria e “geometrica” (per stessa amissione della band). Tredici i brani in scaletta, per circa 45 minuti complessivi, ma ci sono ben quattro brevi intermezzi strumentali. L’opener “Knucklehugs (Arm Yourself with Love)” si ricollega al titolo del platter e in nemmeno 150 secondi presenta l’accostamento di più generi musicali agli antipodi (country, metal, funk), non mancano parti di banjo, violoncello, tromba e lasciano il segno. anche gl’intrecci vocali dei due cantanti (Kristin Evegård e Daniel Håkansson). La nuova vocalist non ha l’approccio lirico della precedente singer AnnLouice Lögdlund, e se toglie qualcosa al sound dei nostri, risulta più sbarazzina e ben calata nella parte.
I giochi si fanno più seri con la successiva “The Age of Vulture Culture”, probabilmente il miglior pezzo in scaletta e quello che resterà impresso nella memoria degli ascoltatori, come fu per “Guerilla Laments”. Il merito va a una forma canzone coesa, con un refrain in levare coinvolgente, oltre che alla solita genialità pazzoide dei DSO, i quali riescono a creare un sound poliedrico che valorizza il metal accostnadolo a sonorità inattese. Una nota di merito va alla sezione ritmica, le parti di basso e batteria sono una goduria. Nella prima parte di “Superhero Jagganath” Kristin si dimostra brava anche su registri meno sguaiati e riesce a catturare l’attenzione con una prova magnetica da Circe navigata. Se volete godervi il lato pazzoide dei DSO sollazzatevi pure nella sezione a cavallo tra terzo e quarto minuto, avrete di che gioire.
Lady Clandestine Chainbreaker” potrebbe sembrare un pezzo più impegnativo e “skippabile”, così non è, superate le strofe dalla cadenza disturbante di pianoforte (suonato dalla stessa Kristin), il ritornello è un altro centro e il romanticismo non manca. “Jigsaw Hustle” sarebbe la canzone ideale per un caper movie indipendente (ricordiamo “Black Box Messiah” in Smetto quando voglio). Disco music, ottoni, chitarre droppate e una voce femminile che fa sognare, cosa chiedere di più? Poco importa che tutto suoni più commerciale che in passato. Toccante la successiva “Ode to the Innocent”, brano unplugged che sta a ricordarci il lato più colto dei DSO, i quali non hanno mai disdegnato pure il ricorso agli archi. Si passa ad atmosfere jazzy con “Interruption”, minuti di svago onirico, con momenti languidi alternati a sfuriate chitarristiche.
Siamo in dirittura d’arrivo. Dopo il curioso intro “Cul-de-Sac Semantics”, “Karma Bonfire” sembra un nuovo opener e attacca proponendo un tiro niente male, con Håkansson sugli scudi. Kristin fa le veci di un’ipotetica Betty Boop 2.0, la sordina di tromba dà un tocco theatrical al tutto. Non poteva mancare uno spunto orientaleggiante nel disco, così “Climbing the Eyeball” nei primi secondi ci fa viaggiare con la mente. A tratti sembra di ascoltare una versione alternative di certi Therion (li aspettiamo al varco con il prossimo mega album), ma a predominare nel finale è un prepotente influsso djent che chiude in modo smagato il pezzo. Non poteva essere il giusto epilogo dell’album, così troviamo l’effimero outro “Porch of Perception”, un divertissement bucolico che non avrebbe sfigurato all’inizio di Synchestra di Devin Townsend.

In conclusione Pacifisticuffs è un disco che ammalia e seduce con pezzi più immediati rispetto a certe composizioni complesse dei precedenti platter degli scandinavi. Le influenze sonore sono innumerrevoli – metal, rock, swing, progressive, musica d’arte,  jazz, bluegrass, schlager, disco, folk, gospel, blues, tango – il trademark dei DSO ben riconoscibile (basta leggere i titoli ricercati delle canzoni) ognuno potrà confrontarsi con il sound proposto da una specifica angolazione. Detto questo, buon ascolto!

Roberto Gelmi (sc. Rhadamnthys)

 

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