Recensione: Pagan Manifest
Con la sterzata stilistica degli Enslaved, il pessimo Blot e il successivo scioglimento degli Einherjer, il viking metal norvegese ha vissuto per diverse stagioni un sonno piuttosto profondo, rimanendo intorpidito sotto la morsa del ghiaccio sporco del sangue del grande Valfar, ennesima perdita di una scena sempre più ridotta all’osso.
Nel silenzio dei fiordi, mentre Svezia e Finlandia rubavano prepotentemente i vertici della scena trovando nuove leve capaci di ereditare gli scranni lasciati vuoti da chi li aveva preceduti; dalla neve norvegese tornavano a germogliare boccioli come Asmegin e Glittertind. Nello stesso frangente in cui queste band ridavano speranza ai fan che avevano visto cadere più o meno valorosamente tutti i padri del genere, a Haugesund, nella stessa città culla degli Einherjer, Pagan Manifest rimaneva finito e nascosto in qualche angolo per quattro primavere, in attesa di vedere prima o poi la luce. Intanto le voci intorno alla band crescevano, alzando un alone di interesse notevole che ha reso questo album uno dei debutti più attesi di tutta la scena.
Dietro un artwork delizioso (ben visibili i draghi di Dragons Of The North e tutta l’iconografia pagana più classica) si cela un disco che potrebbe ridare forza e vigore a una scena al momento nettamente inferiore, per numero e proposta, agli altri grandi bacini del viking scandinavo.
Non a caso, a inizio recensione, sono stati citati Ensalved e Einherjer: proprio queste due formazioni furono i gruppi che ispirarono, nel 1994, i primi passi degli Ulvhedin. Un amore e una devozione che ritroviamo sin dalla prima traccia dell’album, Element of Sorrow, che pare procedere proprio come un tributo, aprendosi con un frangente epico e deciso con clean vocals, per poi buttarsi nel turbinio oscuro di chiara scuola Enslaved. È proprio questo secondo tipo di approccio a fare da padrone per tutto l’album, partendo dalla successiva Månelys: esempio deciso e spartano del viking più tirato e primitivo, forte di un suono tagliente anni ’90 e delle tipiche improvvise accelerazioni ritmiche di scuola norvegese, due aspetti della musica degli Ulvehdin che difficilmente potevano trovare un mentore migliore del maestro Pytten, che di questo Pagan Manifest ha curato la produzione. Ad affiancare cotanti modi stilistici vecchia scuola troviamo le ottime voci di Sigvald Carr e John Lind, sempre in bilico tra il growl profondo e lo screaming maligno. L’eco dei passi guida degli Enslaved dei primi tempi rimbomba piuttosto lucidamente nella parte centrale dell’album, dalla paganissima One Eyed God alla altalenante Where the Spirits Gather, fino all’esaltante e spedita The Ungodly Path. Tinte più cadenzate e composte per Pagan Manifest, che seppur sia un pezzo black con tutti gli accorgimenti del caso (arpeggi distorti in primis), riesce a fare proprie pacate tinte epiche grazie a un palm muting marcato e una batteria mai così coordinata alle ritmiche di chitarra. A seguire la title-track troviamo Echo of the Goddesses Voices, il pezzo più lungo dell’album. Splendidi i repentini cambi di tempo in cui il brano si destreggia per tutta la sua durata, e ottima la gestione di questi ultimi da parte della band. Leggermente fuori dagli schemi classici la conclusiva strumentale Gnipahellir, dove lead di chitarra viaggiano su atmosfere cupe e desolate, scemando lentamente fino al silenzio che chiude l’album.
La Norvegia non ha trovato i nuovi alfieri degni di reggere con orgoglio il vessillo nazionale del genere, ma ha sicuramente in seno un gruppo che può riportare il viking più grezzo e minimalista figlio del capolavoro Frost, a livelli alti, rispolverando antichi valori ultimamente caduti in disuso nell’ambiente pagan/folk, invaso da (ahimè) voci femminili e stilemi fin troppo melodici e banali.
Tracklist:
1. Element of Sorrow
2. Månelys
3. The One Eyed God
4. Where the Spirits Gather
5. The Ungodly Path
6. Pagan Manifest
7. Echo of the Godesses voices
8. Gnipahellir
Alessandro ‘Zac’ Zaccarini