Recensione: Painted Paradise

Di Daniele D'Adamo - 20 Febbraio 2025 - 16:14
Painted Paradise
60

Ancora technical death metal dagli Stati Uniti, ormai diventato uno delle patrie in cui l’anzidetto sottogenere trova fertili praterie in cui far correre le proprie note. In una di queste svernano i Fleshbore, le cui radici si sono sviluppate nel terreno a partire del 2017.

Per “Painted Paradise“, però, secondo full-length in carriera, i Nostri hanno adottato un approccio del tutto personale. Il brutal è molto vicino è la sua influenza si fa sentire entro un sound potentissimo, travolgente, profondo. Ma anche, ovviamente, caleidoscopico, multiforme, a tratti estremamente complesso. Con qualche spruzzata qua e là di timide melodie (“The World“).

Ed è proprio in questa song si possono apprezzare vari elementi che concorrono a definire lo stile del combo dell’Indiana. Anzitutto le linee vocali, improntate su una mistura agghiacciante di growling ferale, assassino nonché harsh vocals replicate alla velocità della luce con l’ugola che gronda sangue per via della sforzo compiuto, con un tocco di inhale per concludere. Un cantato così è davvero difficile da districare nelle sue numerose volute, dando così in parto ai fan del metal estremo qualcosa da masticare a lungo e con cura.

Azzeccata, poi, la scelta di adoperare due chitarre (Michael McGinley, Cole Chavez), per un risultato, in fase ritmica, che non presenta neppure un decimo di vuoto, di calo di tensione. La tremenda compressione delle corde con la tecnica del palm-muting mieterà sicuramente molte vittime a causa una pressione energetica già di per sé insostenibile ai più. Il riffing, poi, è enorme, e realizza una struttura di base totalmente massiccia che fa da fondamenta per i successivi innesti dell’altra strumentazione, oltreché per infiniti spunti solistici che avvolgono il disco come se fosse un globo dorato.

La sezione ritmica è ad appannaggio del virtuoso Cole Daniels, impegnato a sostenere sia la batteria del session-man Robin Stone, sia le chitarre e la voce. Il modus operandi è il solito, nel senso che oltre a tutto questo Daniels si fa sentire spesso e volentieri con i suoi tortuosi sentieri solistici che, di fatto, rappresentano l’elemento che di più marchia lo stile del gruppo quale esempio di technical death metal (“Inadequate“).

L’oscillazione fra quest’ultimo e il brutal death metal (soprattutto per la voce) è pressoché continua, tale da rendere difficile delinearne con esattezza i dettami natii. Se però si pone l’attenzione sul mostruoso break centrale di “The Ancient Knowledge” tutto si fa più chiaro, più nitido. A prescindere dall’aggressività di O’Hara, la spaventosa tecnica strumentale degli statunitensi esplode in tutta la sua estrema tortuosità.

Certamente, con una tale mole di quantità di musica alle spalle non è semplice scrivere canzoni che siano sempre e comunque intelligibili giacché, volenti o nolenti, è qui che si fiuta, si percepisce, si fa propria l’abilità compositiva, posto ci sia. Perché un conto è sparare alla velocità della luce accordi il più lambiccati possibile, un conto è scrivere brani leggibili ai più anche se intricati al parossismo.

In questo, i Fleshbore riescono a metà, nel senso che alcune tracce hanno un loro perché che è chiaro e limpido, altre paiono meri esercizi di tecnica come per esempio “Laplace’s Game” (nome omen), ove è quasi impossibile trovare il bandolo della matassa.

Nel complesso, per chiudere il discorso, nulla si può eccepire sulla straordinaria preparazione tecnica dei vari componenti che formano i Fleshbore. “Painted Paradise“, nella sua perfetta elaborazione, nella sua impeccabile costruzione, appare un po’ come una scatola vuota. Senz’anima e cuore. Ma qui, forse, si finisce nell’abito dei gusti personali.

Ai posteri l’ardua sentenza.

Daniele “dani66” D’Adamo

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Band: Fleshbore
Genere: Death 
Anno: 2025
60