Recensione: Pale Communion
È probabile che la maggior parte di chi sta leggendo questa recensione sia ancora frastornato da quanto sentito tre anni orsono su Heritage, disco numero dieci degli Opeth. Un cambio brusco, sorprendente, sebbene la svolta fosse intuibile. Perché Mikael Åkerfeld negli anni precedenti si era lasciato andare più volte a dichiarazioni in cui palesava la sua noia per il metal estremo ed il suo sempre maggiore coinvolgimento nelle sonorità del prog settantiano. Va da sé che da Ghost reveries in poi il growl ed i riff al vetriolo erano scemati. Già Watershed lasciava ampiamente intuire che vi fosse una svolta in atto. Anzi, i growl su quel disco erano già ridotti a puro ornamento (sorta di contentino), ma Heritage, eliminandoli del tutto, aveva accentuato il mutamento a velocità folle per chiudere il discorso, ed era stata una chiusura brusca come una martellata.
Trattavasi di un disco estremamente derivativo e tributario dei leggendari gruppi settantiani: King Crimson, Jethro tull e così via. Scelta coraggiosa quanto verosimilmente opinabile, col senno di poi. Il disco aveva scontentato la maggior parte dei fan (alcuni in parte, altri completamente). Alcuni hanno ripudiato la band, altri hanno continuato ad idolatrarla. Altri hanno riconosciuto la bontà del nuovo disco, rimanendo pur sempre frastornati. Sembrava di essere innanzi ad un altro gruppo, ad una sorta di Opeth mutilati. Lo dico chiaro e netto, io ero tra questi. La voce di Åkerfeldt era l’unico elemento a garantire una continuità col passato. Avesse deciso di mettere gli Opeth in naftalina e far uscire il disco come progetto parallelo nessuno avrebbe fiatato.
Ma la mente che sta dietro a questa band ha un ego privo di limiti, sicché è andata come è andata. Non deve essere stato facile convincere la Roadrunner circa il mutamento, ed è probabile che il nostro fosse ben conscio di buttare un candelotto di dinamite in un vespaio. Un uomo a cavallo tra la follia pura e la genialità del marketing: perché, checché se ne dica, la popolarità degli svedesi è salita alle stelle. A Pale Communion viene lasciato il compito di confermare che Heritage fosse una scelta ponderata e non una bizza d’artista.
Pale Communion che era stato presentato da un gran bel singolo come Cusp of eternity. Progressive allo stato puro. Un gran bel riff di chitarra e una strofa micidiale, un netto passo in avanti rispetto al precedente disco per quanto concerne personalità ed abilità di scrittura. A far da contraltare un ritornello fatto di cori mistici buoni ma non entusiasmanti. Una buona presentazione del disco. Gli Opeth non tornano sui loro passi e vengono promossi con buoni voti, seppure non buonissimi. Ora vediamo come è andato il resto.
Il resto non tradisce le aspettative, vale a dire che si tratta di puro progressive rock. Ci sono grandi profusioni di mellotron e di chitarre melancoliche lungo tutto il disco. Lo si capisce fin dalla opener Eternal Rains will Come, brano che apre tutto in pompa magna, seppur dai ritmi lenti, creando grandi atmosfere e paesaggi brumosi, lacustri. Il brano pare davvero ben strutturato nel suo continuo divenire, impreziosito da un lungo assolo di chitarra nella parte centrale. Discorso ribadito ed esaltato dai dieci minuti di Moon Above, Sun Below, traccia strutturata in due parti distinte. Col procedere degli ascolti emerge come gli Opeth abbiano fatto un gran lavoro nel creare queste atmosfere, in bilico tra i momenti bucolici di Ghost reveries e Damnation. Lo si nota soprattutto in Elysian Woves, sicuramente la più dannata tra le composizioni. Cinque minuti dominati da una semplice chitarra acustica e dalla voce di Åkerfeld, eppure pervasa da quelle atmosfere inquiete e dalle soffici chitarre eletriche di Ghost reveries.
Tutte le composizioni risultano estremamente stratificate, sicché è molto difficile descriverne le evoluzioni ed i mutamenti. Insomma, ci troviamo innanzi a musica tutt’altro che semplice, sebbene sia stato tolto il death. E per quanto sembri strano dirlo degli Opeth, Pale communion sembra essere un disco molto più maturo del suo predecessore. Il recupero delle radici di Heritage qui è stato metabolizzato, dando origine ad un sound più omogeneo e personale, anche grazie all’utilizzo dei cori e di quei toni orientaleggianti che tre anni orsono erano stati utilizzati in larga misura ma con meno scienza. In tal senso si veda ad esempio Voice of treason, sicuramente il pezzo più elettrico e sincopato del lotto.
Ancora, è impossibile non citare la strumentale, Goblin, che molto probabilmente è un omaggio ai nostri Goblin, dato il ritmo ipnotico che la pervade, così come è impossibile non nominare la traccia che la segue River. Sembra quasi un pezzo bucolico dei Porcupine tree, un’altra ballata acustica. Si tratta di un pezzo piuttosto diverso dal resto del disco, molto più ancorato al prog bucolico settantiano di maniera, decisamente più solare rispetto al nebbioso resto. Pur trattandosi di un ottimo pezzo (disarmantemente semplice nella sua prima metà, mentre la seconda è dominata da uno strapitoso climax) ai primi ascolti infatti sembra piuttosto fuori posto nell’economia dell’album. Pure, col progredire dell’esperienza fruitiva questa piccola gemma si inserisce molto bene, e contribuisce a dare un po’ di varietà in più all’album, una specie di oasi che spezza la monotonia di questi nuovi Opeth.
Alla luce del fatto che Pale Communion si limita a limare quanto sentito in Heritage aggiungendo personalità al tutto, è quantomeno probabile che anche la vostra opinione su questo nuovo corso degli svedesi non subirà alterazioni di sorta. Certo è che gli Opeth, al di là della spocchia insita e grondante dal loro leader, sono degni di stima per il coraggio mostrato nell’intraprendere una sì drastica svolta. Solo Ulver e Burzum hanno osato colpi simili, ma tali band hanno tutt’altro profilo, altra immagine e soprattutto bacino d’utenza. Questo è il punto. Gli svedesi hanno milioni di fan e sono sotto gli occhi di tutto il mondo metal, pronto a giudicare, esaltare o stroncare. Åkerfeld ha le mani legate (che gli importi o meno). Tornare indietro sarebbe una caduta di stile come d’immagine e mostrerebbe un gruppo in balia del volere dei fan. Dall’altro lato la possibilità è quella di continuare un percorso che la maggior parte dei fan non apprezza, non appieno, e pertanto disconosce queste ultime uscite che di metal estremo non hanno più nulla. Pure rimane per certo che la classe e l’ispirazione degli Opeth non è discutibile ed è pari alla loro inventiva, sicché è lecito attendere nuovi colpi di coda nelle prossime uscite. E si spera, nuove sorprese. Al momento non ci resta che godere di Pale Communion, che a tutti gli effetti è un gran bel disco di progressive rock.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco
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