Recensione: Panic in the harbor
Dopo neanche un anno, le correnti favorevoli hanno riportato i milanesi Calico Jack a veleggiare dalle nostre parti. Il loro precedente EP, “Scum of the seas”, ci aveva fatto scoprire una band giovane e di belle speranze; peccato che la produzione fosse tutt’altro che perfetta e che ci fossero alcuni aspetti con buoni margini di miglioramento. Evidentemente, i nostri non si sono persi d’animo e hanno deciso di mettersi nuovamente all’opera per realizzare le quattro tracce che vanno a comporre questo “Panic in the harbor”.
Quando si ascolta un disco di un gruppo esordiente, è interessante valutare, oltre la musica stessa, il grado di maturazione della band; nell’intervallo di tempo trascorso dall’ultimo demo, avranno imparato dai propri errori? Le capacità tecniche saranno migliorate? Oppure, piuttosto, avranno deciso di cambiare completamente strada e stravolgere il proprio stile?
Ricordiamo agli smemorati e informiamo tutti quelli che non hanno avuto modo di ascoltare il precedente lavoro del combo cosa suonano questi ragazzi: come nel primo EP, dalle casse del nostro stereo straborda un folk metal a tinte forti; preparatevi a incontrare ritmiche serrate, un violino indiavolato e un growl profondo e potente che sovrasta il tutto come una cannonata. E, proprio come nel precedente capitolo della discografia dei sei lombardi, si parla di pirati! Che la vostra cultura in materia sia maturata grazie a ripetuti ascolti dei Running Wild nel loro periodo pre-ussaro o leggendo le autobiografie di Guybrush Threepwood e Jack Sparrow, non è importante; i Calico Jack vi accoglieranno volentieri nella loro ciurmaglia scanzonata e vi accompagneranno per una mezzoretta di musica ruvida e scanzonata.
Ma veniamo al sodo: come sono andati questa volta i nostri filibustieri? Come già accennato nelle premesse, il loro precedente lavoro presentava alcune lacune che ne pregiudicavano decisamente la godibilità finale. Questa volta, è stata senz’altro dedicata un’attenzione maggiore alla fase di produzione: i suoni sono più netti, non impastati, e non sembra più di ascoltare un nastro black metal proveniente dagli anni ’90. Fortunatamente, i passi avanti a livello di “confezionamento” del prodotto sono stati accompagnati da una parallela crescita, forse meno marcata, delle capacità tecniche dei musicisti: la sezione ritmica è le due chitarre sono diventate molto più potenti e precise e non capita più che i vari strumenti si soffochino a vicenda, prevaricandosi l’un l’altro nel tentativo di passare in primo piano. Ma il vero balzo in avanti è stato fatto dal violino di Dave, finalmente valorizzato in maniera adeguata e non semplicemente utilizzato per qualche fraseggio di contorno.
Intendiamoci, c’è ancora da lavorare prima di ottenere un prodotto in grado di sfondare sul mercato. Manca ancora l’equilibrio tra voce e strumenti, che si trovano ancora in competizione per farsi spazio nell’orecchio dell’ascoltatore. I quattro brani presenti in “Panic in the harbor” sono intensi e di sicuro impatto in sede live, però si ha l’impressione che i lombardi puntino fin troppo sul vigore, tralasciando gli altri aspetti: le canzoni sono divertenti ma non particolarmente originali; per farsi largo su una scena satura, c’è bisogno di uno sforzo in più.
Ancora un po’ di pazienza, necessaria per ottenere quel poco di maturità musicale che ancora manca, e potremmo avere tra le mani un gruppo interessante e in grado di battersi degnamente con rivali ben più blasonati. In ogni caso, siamo sulla strada giusta.
Damiano “kewlar” Fiamin