Recensione: Paradise

Di Daniele D'Adamo - 22 Maggio 2011 - 0:00
Paradise
Band: Vermin
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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58

I tedeschi Vermin hanno ormai alle spalle otto anni di carriera, ma è relativamente da poco (2008) che sono riusciti a stabilizzare la formazione sì da avere i mezzi per fare sul serio. E, infatti, dopo due EP (“Strike Your Idols Down”, 2009; “At Sanitys Dawn”, 2010), si sono per loro spalancate le porte degli Aexxys Art Studio di Schwandorf (Ger) per registrare, con la produzione di Stephan Fimmers (Necrophagist), il primo full-length: “Paradise”.

Lo stesso Fimmers definisce la musica dei Vermin: «metal how it should be! Straight into your face… !». Con ciò, egli parrebbe superare i concetti fondanti di alcuni sottogeneri metal. Quest’affermazione, certamente dovuta a pulsioni promozionali, induce tuttavia a una riflessione. Riflessione che fa intuire come, nel circuito del metal estremo – death e thrash, lasciando da parte il black che fa misantropica storia a sé – si tenda ad adattare o meglio semplificare parte del medesimo alla definizione di ‘metal’; anche se, magari, solo per quei casi ove non si esagera con la brutalità (nu metal poi groove, post thrash, metalcore, melodic e symphonic death metal) e lasciando quindi da parte la parentela cattiva (thrash e techno thrash; death, brutal e technical death, grind; djent). Questo breve approfondimento sul concetto del ‘metal del 2011’ va preso tuttavia con le molle. Tutto può essere giusto, tutto può essere sbagliato: sarà il tempo, come sempre, a fungere da galantuomo e da arbitro imparziale.

Tornando ai Nostri a questo punto sorge spontanea una domanda: «ma cosa suonano?». Semplice: suonano una miscela di thrash e death, con una leggera preferenza per quest’ultimo. Quindi, alla fine, per il sottoscritto non si tratta di ‘metal’ bensì di death. Contaminato, evoluto, moderno quanto volete ma, semplicemente, death metal.       

Dopo l’immancabile introduzione strumentale dagli atrettanto immancabili toni bui (“Paradise”), i Vermin mostrano i muscoli con la vera opener “While You Were Dead” sciorinando un suono pieno, possente e carnoso. La velocità è quella classica del mid/up-tempo da trita-ossa, cui si annoda un buon riffing: tanto efficace in chiave ritmica, quanto lindo e pulito in quella solista. Stephan Hurtig si dà un bel daffare fra scale di granito e accordi di stiletto; timbrando in maniera personale il sound del quartetto. “Empty Eyes” è invece terra di conquista di Simon Reuter, autore di un’altrettanto buona prestazione tecnica: il suo strumento allaccia i riff di chitarra con una corda spessa ma elastica; piombando, a volte, nel limbo delle frequenze più basse. Manuel Herz cambia passo proponendo un continuo cambio di tempi sino a sconfinare nel blast-beats.
La melodia, va detto, non è presente se non in maniera minima: Bodi alterna growling e screaming senza intraprendere la via del clean, tuttavia rimandando, soprattutto in “While You Were Dead”, a certi passaggi tipici dei primi Paradise Lost. Ancora buone le armonizzazioni, in “Impact”, di Reuter; bravo a cucire e ricamare orpelli con gusto e abilità. Nella canzone c’è anche spazio per digressioni dissonanti e improvvise accelerazioni ritmiche, invero anonime. “Mourning Sound” continua sulla strada intrapresa della commistione death/funky, purtroppo senza che scocchi il lampo della scintilla: si tratta, infatti, di passaggi triti e ritriti già sentiti troppe volte.
 
A questo punto si possono prendere i cinque brani appena descritti e rovesciarli specularmente per ottenere “Paradise”. Il che non è una buona cosa, anzi. Dimostra che il combo di Bayreuth non ha il carburante sufficiente per sostenere la dovuta azione propulsiva di un songwriting anzi quasi assente. Una volta stabilite le coordinate stilistiche, cioè, è come se le song ‘andassero da sole’: meccanicamente, senza un’anima che le sostenga. Il che comporta, in pratica, il fatto che si possa ascoltare il CD anche duecento volte senza che rimanga in testa nemmeno un pezzo; pur essendo il tutto, in generale, godibile e mai fastidioso. E allora, inevitabile come la neve al polo nord, giunge presto la noia.

I Vermin sono molto bravi con i loro strumenti, sono degli ottimi esecutori e dimostrano di conoscere anche la musica extra-metal. Sanno come si fa un disco e ci riescono con facilità, in modo serio e professionale. Non sanno scrivere canzoni interessanti, però. Tale requisito, imprescindibile per lasciare il segno in un ambiente saturo di proposte analoghe, fa percepire “Paradise” come il classico prodotto studiato a tavolino per portare a casa la cena e nulla più.
Insufficiente.    
     
Daniele “dani66” D’Adamo

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Track-list:
1. Paradise 0:44
2. While You Were Dead 5:54
3. Empty Eyes 5:14
4. Impact 3:56
5. Mourning Sun 4:59
6. Frozen Mirror 7:01
7. Public Violation 2:51
8. Forsake 5:13
9. Spread Your Wings 5:44
10. Screams 3:39

All tracks 44 min. ca.

Line-up:
Bodi – Vocals
Stephan Hurtig – Guitar
Simon “Bobo” Reuter – Bass
Manuel Herz – Drums
 

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