Recensione: Paradise Ends Here
Nel rinnovato panorama del doom, sono parecchie le nuove band che si sono affacciate sulla scena. Fra di esse ci sono gli olandesi Extreme Cold Winter, nuovi più che altro perché questo è l’anno del debutto discografico, “Paradise Ends Here”, al momento unica rappresentazione discografica della loro musica sin dal 2009, anno di nascita.
Come spesso accade ultimamente, il doom è proposto in versione fusion con il death metal. Non è mai facile stabilire i confini fra i generi di un’arte astratta come la musica, e ancor di meno in questi casi border-line, ove basterebbero poche modifiche alla struttura armonica di base per far rientrare la band in una categoria invece che in un’altra.
Nel caso di “Paradise Ends Here”, pur essendo il relativo ambito lontano dalle più funeree atmosfere del lentissimo doom classico, appare nondimeno fuorviante discutere di death metal. Gli Extreme Cold Winter, come peraltro suggerisce anche il nome, tendono irresistibilmente a ricreare le incommensurabilmente gelide temperature siberiane. Utilizzando riff semplici, quadrati, dall’andamento lento, che rimandano a immaginarie traversate solitarie della tundra subpolare.
Seppure il sound in sé si possa ritenere più che adeguato e rispondente alla bisogna, i Nostri scivolano purtroppo nella trappola di un songwriting esageratamente uguale a se stesso. È davvero arduo, infatti, riuscire a discernere con sufficiente facilità le quattro song che compongono l’album (“Paradise Ends Here” è solo un brano ambient/strumentale a chiudere, della durata di poco più di un minuto). La somiglianza fra loro è obiettivamente eccessiva, e alla fine sembra di ascoltare lo stesso giro ripetuto (quasi) all’infinito. Malgrado le canzoni abbiano dei titoli irresistibilmente evocativi, alla prova dei fatti di evocativo non c’è nulla. Forse si salva l’opener “Warriors Of The Wasteland” per l’incipit alla Raining Blood, per il riffing elementare ma memorizzabile, per il suono del vento, per lo xilofono alla fine…
Il resto, però, dimostra inequivocabilmente che creare del buon doom non è per nulla facile, come magari – al contrario – potrebbe apparire a chi analizzasse superficialmente il genere. Anzi, per riuscire a imbastire dei brani che, con pochi accordi, riescano a frugare in profondità dell’anima, occorre possedere un raro talento compositivo.
Fattispecie cui, basandosi su “Paradise Ends Here”, il trio dei Paesi Bassi ne è escluso; anche in maniera piuttosto evidente.
Daniele D’Adamo