Recensione: Paradox Hotel
Questa volta l’hanno fatta grossa. Di nuovo, potrebbe aggiungere qualcuno. Già, perché “Paradox Hotel” è già il quarto doppio album su nove uscite da studio (e una marea di live album/compilation) sfornato dagli inesauribili Flower Kings. E qualcuno potrebbe già iniziare a tremare, considerati i precedenti. Non fraintendiamoci: i re dei fiori sono e restano tra i massimi (se non i massimi) referenti del prog rock scandinavo odierno; tuttavia non sempre in passato i loro attacchi di grafomania musicale avevano riscosso consensi unanimi. Sul banco degli imputati i detrattori hanno spesso chiamato lo stesso stile della band, piacevolmente nostalgico, certamente, ciò nondimeno anche laborioso, a tratti dispersivo e non sempre di facile digestione. Ma non c’è niente da fare: la musica dei Flower Kings è questa, erudita e raffinata, di certo non per tutti, e una sonora delusione attende chi spera di poterla capire in un pugno di ascolti.
Non si può tuttavia negare che un siffatto approccio si riveli deleterio nei momenti di appannamento compositivo: quando al peso specifico della ricercatezza si aggiunge la zavorra di una vena creatrice poco brillante, il fardello che grava sull’ascoltatore rischia di risultare insostenibile. Ma per fortuna questa volta le cose sono andate diversamente.
Dopo l’abbandono repentino del Pain of Salvation Daniel Gindelöw – che pure aveva dato per qualche tempo l’impressione di voler entrare in pianta stabile tra le fila della band – e la sostituzione al volo del drummer Zoltan Csörsz col buon Marcus Liliequist, il mastermind Roine Stolt ha deciso di apportare qualche correzione di rotta. Accantonate in gran parte le influenze jazz, ridimensionata l’ingerenza psichedelica che aveva preso a tratti il sopravvento nel parzialmente opaco “Adam & Eve”, il tappeto rosso viene svolto innanzi alla scuola del rock sinfonico, protagonista incontrastato dall’inizio alla fine dei giochi. Le canzoni ne guadagnano, e molto, in freschezza e spontaneità; già il primo disco, pressoché monopolizzato dalla penna dello stesso Stolt, riserva diversi brani dall’impatto relativamente immediato. “Hit Me With A Hit”, oltre a evocare in un baleno gli Yes d’annata, colpisce per le sue rime ridenti e solari (ma attenti al break centrale!); la sonnolenta “Mommy, Leave The Light On” fa socchiudere le palpebre con materna dolcezza; mentre alla primavera di “End On A High Note”, senza dubbio una delle gemme della giornata, tocca il compito di risvegliare poco alla volta le membra intorpidite.
Discorso completamente diverso per la suite “Monsters & Men”: ventuno primi e ventuno secondi che mescolano e rimescolano ogni sorta di ingrediente, rifiutando ostinatamente i sapori facili. Non lasciatevi scoraggiare dai primi ascolti perché questo bocconcino (si fa per dire) dovrà essere masticato a lungo e con molta calma prima che alle vostre papille sia concessa la meritata soddisfazione. Non siamo lontani dallo stile di “Retropolis”, e non a caso il ping pong dell’intro “Check In” rimanda per direttissima alla vecchia “Rythm of Life”.
Cambio di disco, cambio di stanza. Questa volta capitan Stolt lascia spazio anche al resto della ciurma, sebbene l’introduttiva “Minor Giant Steps” porti ancora la sua inconfondibile firma. La sorella minore di “Monsters & Men”, con i suoi dodici primi e dodici secondi (saranno mica casuali tutti questi rimandi numerici?), accende la miccia del rock e sbugiarda pubblicamente chi crede che il meglio sia già alle spalle.
Un anno e mezzo fa avevamo lasciato il tastierista Tomas Bodin con un ottimo album solista e una solenne promessa: mai più musica che non venisse dal cuore. “Touch My Heaven” è la prova della volontà di rispettare la parola data: un brano lento, di grande atmosfera, accompagnato dall’intimità di cori caldi e confortevoli, sublimata da un lungo assolo finale davvero da brividi.
Il marchio di Tomas, insieme a quelli del solito Roine e dell’ottimo Jonas Reingold, è anche sulla sognante “Man Of The World”, un concentrato purissimo della migliore tradizione progressiva dei seventies. Da applausi anche l’altro lavoro di squadra – stavolta a opera del trittico Reingold/Stolt/Fröberg – la soave “What If God Is Alone”, in cui reminiscenze pinkfloydiane incontrano la delicatezza dei primi King Crimson in un’apoteosi armonica quasi commovente.
Senza troppo rumoreggiare, l’impronta di Fröberg compare anche in calce alla saltellante “Life Will Kill You”, un altro degli acuti del secondo girone, con un refrain dannatamente rock a far da contraltare a una strofa a dir poco bizzarra. A chiudere le danze, dopo aver dato sfogo ai residui di follia nell’emblematica title-track, ci pensa di nuovo la penna solitaria di King Stolt, con una “Blue Planet” morbida e rassicurante, che solo per un attimo pare imbizzarrirsi prima di concludere il viaggio là ove era cominciato.
Ora si spiega perché Roine Stolt aveva deciso negli ultimi tempi di alienarsi dalle sue innumerevoli collaborazioni – rinunciando tra le altre cose a porre il proprio sigillo sullo strepitoso ritorno dei Tangent di Andy Tillison – con l’intento di dedicarsi con la massima attenzione alla sua creatura prediletta. E pare proprio che i suoi sforzi non siano stati vani. Al punto che, dopo mesi di ascolti, “Paradox Hotel” ha scalato la lista delle preferenze del sottoscritto superando uno dopo l’altro, grazie alla sua genuina attitudine rock, tutti i precedenti lavori della band. Senza dubbio qualche pezzo più ostico del solito rimane – la suite iniziale o “Unorthodox Dancing Lesson” sono casi eloquenti – e come da copione quando si parla di Flower Kings bisognerà familiarizzare poco a poco con le tracce, imparando a conoscerle nelle loro sfuggenti sfacettature. Ma è un prezzo ragionevole da pagare, in cambio delle soddisfazioni che ne seguiranno.
“Paradox Hotel” non è solo una prova di vitalità, bensì anche un impegno per il futuro: se infatti Stolt e soci impareranno a dosare le proprie forze, concentrandosi sugli obiettivi che veramente intendono raggiungere senza perdersi tra mille collaborazioni e progetti paralleli, i risultati non potranno che essere gratificanti. Tanto per loro quanto per chi li ascolta.
Tracklist:
Room 111:
1. Check In (1:37)
2. Monsters & Men (21:21)
3. Jealousy (3:22)
4. Hit Me With A Hit (5:32)
5. Pioneers Of Aviation (7:49)
6. Lucy Had A Dream (5:28)
7. Bavarian Skies (6:34)
8. Selfconsuming Fire (5:49)
9. Mommy Leave The Light On (4:38)
10. End On A High Note (10:43)
Room 222
1. Minor Giant Steps (12:12)
2. Touch My Heaven (6:08)
3. The Unorthodox Dancinglesson (5:24)
4. Man Of The World (5:55)
5. Life Will Kill You (7:03)
6. The Way The Waters Are Moving (3:12)
7. What If God Is Alone (6:58)
8. Paradox Hotel (6:29)
9. Blue Planet (9:42)