Recensione: Paradoxus
Debut-album per i portoghesi Inhuman Architects, di recente anzi recentissima formazione (2020). Dopo un singolo di prova (“Interplanetary Suffering”, 2020), è la volta, quindi, del lavoro completo, intitolato semplicemente “Paradoxus”.
Il genere è il deathcore. Un sottogenere, in realtà, ma che anch’esso, come il primigenio death metal, si sta trasformando a mano a mano che passano gli anni. Tanto da dar luogo a un sotto-sottogenere (sic!) chiamato slam technical deathcore, ove slam è l’abbreviazione di slamming. Un nome che indica, quindi, una forma di deathcore brutale, violenta, aggressiva, eseguita con grande perizia tecnica. Da schiaffoni in piena faccia, insomma. Sì che di natura il deathcore stesso non è (sotto)genere per coloro che non amano il metal oltranzista, tuttavia in questo caso ci si trova davanti qualcosa di estremo nell’estremo.
Sound perfetto nella sua leggibilità, pieno, possente, tirato a lucido, tagliente come la lama di un bisturi. Sound che necessita di una elevata dose di capacità esecutiva, data la mostruosa quantità di note tirate giù nell’unità di tempo. E, in questo, bisogna sottolineare che i Nostri, appena nati, si comportano da band navigata, il cui approccio alla questione musicale è totalmente professionale. E anche dotata di qualche embrione di idea un po’ diversa dal solito, come quella di inserire nel terrificante muro di suono prodotto inserti ambient atti ad alleggerire un’atmosfera altrimenti opprimente (‘Nephilim’).
Fábio Infante affronta le linee vocali utilizzando sia il growling, sia le harsh vocals, spingendosi sino a un poderoso, suinesco inhale esattamente come i colleghi che fanno parte di formazioni di brutal death metal.
Accanto a lui soltanto tre compagni di avventura. Soltanto, poiché il predetto muro di suono è talmente gigantesco che pare impossibile sia stato eretto da tre soli strumenti – oltre la voce, naturalmente. In particolare, occorre rimarcare il lavoro abnorme svolto alla chitarra da Fábio Azevedo, capace di creare un riffing devastante, spaventoso per quanto esteso nel coprire dosi esagerate di riff stoppati, compressi dall’immancabile tecnica del palm-muting ma anche accordi suonati normalmente per dare il la ai lancinanti ricami della fase solista. Susana Gamito, al basso, crea una base piena, possente, che segue in sottofondo l’incedere dell’ascia da guerra. Iterandone sì il movimento ma fornendo una spaventosa dose di energia allo stato puro che, assieme al micidiale drumming di Marcus Reis, spinge il gruppo oltre la barriera dei blast-beats. Esattamente come accade nella più su menzionata ‘Interplanetary Suffering’. Non solo blast-beats ma, come da definizione di deathcore, innumerevoli stop’n’go che frantumano letteralmente i timpani e le budella di chi ascolta.
La somma di tutti questi elementi rappresenta quindi lo stile degli Inhuman Architects, assai moderno per ciò che concerne l’interpretazione del deathcore ma non particolarmente soggettivo. Alla fin fine, nonostante gli irrobustimenti, i rinforzi, le timide pennellate atmosferiche, “Paradoxus” non si discosta poi molto, per personalità artistica, dalla foggia musicale rappresentata. In ciò non aiutano le canzoni, pensate – è questa la sensazione – per picchiare più duro possibile e poco più d’altro; circostanza peraltro sottolineata anche dallo sfascio assoluto operato dalla closing-track ‘Vortex’. Con la conseguenza di apparire troppo simili le une alle altre. Un punto debole che accomuna una miriade di metal-band, incapaci di trovare il guizzo vincente per saltare sopra una qualità media compositiva apparentemente in discesa con il passare degli anni.
In questa… trappola ci finiscono anche gli Inhuman Architects che, con “Paradoxus”, non riescono a sollevarsi dal piano, alto, questo sì, di una bravura strumentistica di primo piano. Il che, come insegna la Storia, non è abbastanza per regalare ai posteri qualcosa che possa scivolare indenne fra le pieghe del tempo. Per via del talento nell’uso dei manufatti sonori la sufficienza c’è ma, purtroppo, poco di più, se si mette in campo la delicata arte della scrittura musicale.
Daniele “dani66” D’Adamo