Recensione: Pariah’s Child
Qualche mese fa, in una remota località finlandese…
“Credo sia giunta l’ora di pensare al nostro nuovo disco. Ci sono idee?”
“Siamo nati e cresciuti come band power, e fino a “Reckoning Night” (2004) non abbiamo avuto problemi con la critica e con i fan. Poi abbiamo avuto il grande coraggio di cambiare stile, di rallentare il tempo e di proporre un hard rock folle e ben lontano dal genere degli esordi. Il trittico del nostro radicale cambiamento si compone di “Unia” (2007), “The Days of Grays” (2009) e “Stones Grow Her Name” (2012). Sembra che questa strada, seppur onesta, non ci abbia portato troppa fortuna. Che si fa? Si torna indietro?”
“Non saprei. Però potremmo accontentare i fan adirati. Ripristiniamo il vecchio logo nella copertina!”
“Idea geniale! E riportiamo in auge l’animale totemico della band: il lupo. Poi magari ci mettiamo anche un corvo, una spruzzata di neve per dare quel tocco tutto finlandese e rieccoci di nuovo dieci anni indietro!”
“Ottimo. Riguardo le tracce?”
“Avrei un’opener pronta tipicamente power, che ci riporta alla classicità degli esordi: tempo più veloce di quanto proposto negli ultimi album, un ritornello orecchiabile e tanta energia. Ha anche un buon testo, è una reinterpretazione in chiave “lupesca” de “I vestiti nuovi dell’imperatore” di Hans Christian Andersen: “The Wolves die Young”. Potrebbe rassicurare i fan delusi dagli ultimi dischi, magari la mettiamo anche come primo singolo ed è fatta!”
“Geniale! Io avrei un pezzo hard rock molto simpatico, dal titolo “Marathon Man”. Però boh, ecco, ha un bel tiro, ma non ha una particolare raison d’être…”
“Mettiamoci un’intro ed un’outro lente che non c’entrano un tubo col pezzo e la chiamiamo “Half of a Marathon Man”, che dite?”
“Sublime! Questa è arte!!”
“Anche io ho un ritornello davvero orecchiabile, tastieroso e catchy, ma non so come farcire il pezzo. C’è anche un buon riff ma da solo dice poco, qui non arriviamo alla sufficienza…”
“Abbiamo quell’amico che sa imitare molte voci: facciamogli imitare un predicatore religioso del rock and roll ed inseriamolo in mezzo alla canzone, dal titolo “X Marks the Spot”… dai che viene una bella cosa! Poi fa ridere!”
“La ballad la mettiamo? Non si può fare un disco senza ballad. Abbiamo sempre scritto cose tristi e negative… una storia d’amore no? Facciamolo rimorchiare almeno una volta il buon Tony, sembra che sia sempre sentimentalmente depresso!”
“Si! Come la chiamiamo?”
“Direi di chiamarla “Love”! Titolo originale per una ballad, vero?”
“Verissimo! Poi l’album lo chiamerei “Pariah’s Child”, visto che torna il lupo, nostro simbolo emarginato per molti anni… un po’ come noi, che siamo stati emarginati da molti fan a causa del nostro cambio di stile. Ma stavolta il figlio dei Pariah, ovvero quest’album, sta per tornare con la sua animalesca sete di vendetta!”
Mi si perdoni la fiction, dacché ovviamente questa discussione folle non si è mai svolta; né tra membri della band né in un botta e risposta interiore del leader della band Tony Kakko. Credo. Eppure, in un caso o nell’altro, a giudicare da numerosi ascolti di “Pariah’s Child” ho la brutta sensazione che la genesi di quest’album non sia stata troppo dissimile da quanto ivi descritto: a tavolino. Fatti confermati in parte dalle numerose dichiarazioni della band, dai track by track all’intervista che ci è stata rilasciata in merito a questa release.
Un’operazione di diversificazione dell’offerta musicale davvero notevole, in un disco che non si fa mancare davvero nulla. C’è pure il prog così così di “Take One Breath” e la grande e tracinante allegria di “Cloud Factory”, la notevole “Blood”, in cui Tony si fa filosofo e sociologo in curioso un mix di sangue e paura. Una paura che si fa valore positivo – incarnata appunto dal totem dell’album: il lupo. In ultimis abbiamo anche una lunga suite: “Larger Than Life” (nomen omen, il brano dura quasi dieci minuti), a tratti molto interessante e profonda, sintesi dell’intero percorso artistico della band.
Cosa manca a “Pariah’s Child” è presto detto: ci sono tante idee buttate freneticamente sul pentagramma per rassicurare da un lato i fan dell’ultim’ora e dall’altro per blandire i fan storici, senza un’idea di organicità – tanto che certe cose stupiscono per genialità ed altrettante sorprendono in negativo per superficialità. Ci sono dei pezzi per certi versi folli e simpatici: “X Marks the Spot” è geniale, “Blood” ha un’ottima atmosfera e “Larger Than Life” ha una complessità non indifferente, per certi versi inedita. Altri brani invece sono davvero banali: provare a mettere “Love” a fianco di capolavori assoluti quali “Letter to Dana” o “Talullah”. Una bestemmia. Non so quale mente diabolica abbia osato addirittura farne il terzo singolo del disco!
“Pariah’s Child” è un tentativo claudicante di rispettare le tante promesse fatte ai fan come in campagna elettorale, promesse di un ritorno ad un power metal più tradizionale, senza rinnegare le sonorità e le rotture degli schemi dei Sonata Arctica più recenti. Promesse purtroppo mantenute solo in parte, anche perché questo power va ricercato proprio col lumicino… in un melting (s)pot di stili pacchiano e difficilmente riassumibile. Siamo di fronte ad un album confezionato per piacere a tutti, disomogeneo per scelta (di marketing?) che sicuramente farà discutere riguardo l’ennesima virata stilistica della band finlandese. Una band che, a mio modesto avviso, fatica a riprendersi dai tempi dell’abbandono del chitarrista ‘storico’ Jani Liimatainen.
Non se la prenda il lupo ormai triste e solo nel suo ululato straziante; “Pariah’s Child” vive di un grande paradosso: da un lato vorrebbe essere un emarginato, un escluso, un pariah; dall’altro vorrebbe piacere a tutti ed essere variopinto, multiforme e di buona compagina. Il lupo, ora in crisi di identità, deve operare una scelta: vivere le sue avventure selvagge nella foresta, oppure farsi animale domestico e mansueto. Tertium non datur.
“I’d given my life to rock ‘n’ roll, but I still wasn’t sure….was there rock ‘n’ roll?
Is it real?”
Luca “Montsteen” Montini
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