Recensione: Partum Vita Mortem
Al terzo full-length, tradizionalmente considerato la cartina al tornasole della qualità della band, gli australiani Orpheus Omega propongono un concept-album centrato sull’andamento ciclico dell’esistenza, scandita da parto, vita, morte.
Suddividendo così “Partum Vita Mortem” in tre segmenti, appunto, ciascuno dedicato al trittico che rappresenta, sinteticamente, il percorso dell’Uomo lungo le infinite strade che solcano il Mondo. Partendo, ovviamente, dal concepimento. Inteso dalla formazione di Melbourne come momento d’istantaneo passaggio dalla ‘non-esistenza’ all’‘esistenza’.
Pur appartenendo alla terra dei canguri, tradizionalmente feconda di ensemble dagli stili assai personali, poco inclini a seguire i dettami codificati dei vari generi metal, gli Orpheus Omega suonano death metal melodico; moderno, sì, ma dalle morbide forme classiche. La cui struttura non dimentica senz’altro, nelle sue membrature, quel gothenburg metal che, oramai, fa parte della Storia.
Nulla d’innovativo, insomma, e tantomeno originale: “Partum Vita Mortem” è un’opera che, seppur allineata ai tempi, farebbe la sua buona figura dieci anni fa. Da ciò discende che l’unica possibilità per rendere il platter se non indimenticabile almeno degno di essere ascoltato, è il songwriting. Con uno stile così conforme ai modelli-tipo, l’unica chance di emergere può derivare dall’aver messo giù più di una buona canzone.
Il che non pare proprio avvenire.
A parte l’eccellente opener “I, Architect”, che ‘sta su da sola’ per via del suo ottimo motivo portante, e che per ciò, purtroppo, crea qualche aspettativa di troppo, il resto di “Partum Vita Mortem” non regala null’altro di particolarmente degno di nota. Anche perché, nel passaggio lungo gli stati dell’esistenza, il mood pregnante non dà l’impressione di cambiare poi molto. Se, non, nella conclusiva “Silence, The I”, nella quale pare emergere un tono maggiormente drammatico rispetto allo standard del lavoro.
Questa penuria d’idee atte a soffiare un’anima nelle song rappresenta un punto debole non da poco, poiché, anche reiterando con testardaggine gli ascolti, dei cinquantotto minuti di “Partum Vita Mortem” rimane proprio poco, nello scomparto mentale dei ricordi.
Peccato, giacché la professionalità messa in campo dai cinque dello stato di Victoria si attesta sui massimi livelli. Sia nell’esecuzione strumentale, sia nella restituzione della musica su supporto digitale, sia nell’artwork, completo di ogni cosa si possa desiderare oggigiorno.
Daniele “dani66” D’Adamo