Recensione: Path
When you’re broken
and everything is lost and gone
face what’s in front of you
you will shine
«Il progetto Krobos nasce nel novembre 2013 dall’esigenza di creare musica senza porsi limiti e sentirsi vincolati da etichette di alcun tipo. La band si concentra nella realizzazione del proprio suono, mescolando quattro visioni, quattro personalità diverse, concedendo spazio ai propri istinti, senza focalizzarsi in un’eccessiva ricerca della perfezione o dell’originalità a tutti i costi. Il risultato è un metal ad ampio respiro, in cui le parti compresse si alternano a quelle più distese, melodiche e malinconiche, fino ad arrivare a riff più sincopati in tempi dispari.»
Questo un breve ed efficace profilo autobiografico della band, che per il suo debut album si affida a un artwork apocalittico su toni ambrati e polverosi e un logo tagliente, lacerato, così com’è il sound messo in campo. Parliamo, infatti, di un metal che trasmette decadenza e potenza (una via di mezzo tra Nevermore e Opeth, volendo citare due nomi importanti), senza cali qualitativi lungo i quasi quaranta minuti di cui si compone il platter.
Tutto inizia con “Falling Up”, un intro con un bel tiro thrash-heavy che ricorda da vicino il sound dei Nevermore. La voce di Matteo Rocco graffia in growl, risulta, invece, poco convincente e nasale sulle strofe in clean (questo il principale difetto di Path). Dopo un bello stacco di basso, la seconda parte del brano dona ecletticità al sound del combo italiano con un crescendo convincente (inclusa l’alternanza di clean e growl). Inizio dimesso e ovattato per “Around You”, con controtempi di batteria e un repentino ingresso del growl cadenzato con la parte ritmica, sempre chirurgica. Si respira aria tra Mastodon e Black Sabbath, mentre i delay droppati ricordano gli Opeth. L’ultima strofa (con un basswork imponente) è pesantissima e recita un catartico: «Let it flow / all the hatred that it’s in you».
Dopo un fade out, un sample di marcia militare introduce “Like Pricks on a Mission”, che mantiene l’album su livelli discreti, tra reminiscenze di band come Megadeth e i numi tutelari Nevermore. Segue la chilometrica (almeno nel titolo) “A Gun Is Way Easier To have Than A Right”. Domina la furia che contraddistingue i Krobos, alternata a svolazzi di basso, palm mute e seconde voci in clean. Le influenze opethiane si fanno palesi, i testi toccane vette di pessimismo cosmico («melting smiles with palsy facial nerves / we’re setting up democracy»). L’ultima strofa è di un sarcasmo totale, ci stanno i filtri vocali e le stonature di Rocco.
La title-track prende avvio blandamente, il groove, comunque, non si fa attendere e i testi sono evocativi, bastino gli ultimi due versi: «time is running by even if it seems to sit still / world keeps moving on and you’ll be in it as well». L’assenza di growl pregiudica in parte la qualità del pezzo, che però regala alter emozioni negli ultimi centoventi secondi, con un’alternanza di rallentamenti e accelerazioni.
Ultimi due brani, dal minutaggio similare. “Opportunity” ha un avvio smagato, sono presenti anche alcuni tempi in levare thrash. Dopo un finale brusco, il disco si chiude con “Bruised” e una bella allitterazione iniziale («bruised blinded i proceed»): il growl ammanta il minutaggio del pezzo di una tinta ferale e si conferma vero fil rouge e valor aggiunto del platter.
In definitiva Path è un lavoro discreto, la produzione è buona, il muro sonoro creato dai Krobos, pur non originalissimo, riesce a scatenare un sano headbanging. La band italiana dimostra, inoltre, una certa pesonalità, ma quello che non funziona sono le clean vocals di Matteo Rocco, il quale dovrebbe scacciare dalla mente il fantasma di Ozzy Osbourne. Per il resto, il coraggio dimostrato dai Krobos è ammirevole, i ragazzi in line up dimostrano potenzialità interessanti, il futuro li attende al varco.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)