Recensione: Pattern-Seeking Animals
Degli animali che cercano uno schema devono essere delle bestie ben strane. E in effetti, i Pattern seeking Animals (P-SA) una bestia strana lo sono, almeno a livello di formazione. Sono per due quarti composti da membri degli Spock’s Beard – Ted Leonard e Dave Meros. Il terzo membro è poi un ex Spock’s Beard (non Neal, non Nick ma l’altro batterista Jimmy Keegan). E l’ultimo è invece, pensa un po’, John Boegehold, che per gli Spock’s spesso compone. Se ci siano sconvolgimenti alle porte in casa della Barba lo scopriremo presto, anche se questo non sembra il caso.
Insomma, i P-SA potrebbero essere definiti una sorta di Spock-B, ma sarebbe in realtà, un po’ riduttivo. La matrice sonora è ovviamente quella neoprogressive e la sonorità della band madre rimangono ben individuabili. Ora, il principale trait d’union tra il gruppo principe e il side project è, eminentemente, la voce di Ted Leonard, a cui fa da traino la parte musicale, anche se non siamo innanzi ad un album fotocopia.
In effetti, vediamo realizzate su disco le dichiarazioni di Boegehold, ovvero “mettere insieme un disco che abbia la classica complessità del prog pur rimanendo molto catchy”. E qui abbiamo la principale distinzione dalla band madre. Tutto è fatto per entrare, in maniera relativamente semplice, nelle orecchie. Il risultato è un album di nove tracce, di cui sei sotto i sei minuti e tre sopra i nove e mezzo. Ma pure questi tre, a cominciare dall’ottima ‘No Burden left to carry’ che apre il platter, risultano estremamente semplici e di facile ascolto.
Certo, non mancano gli interludi strumentali, ma se sono complessi non sono mai particolarmente lunghi. E se invece sono lunghi, è molto facile orientarsi e, a volte, innamorarsi, (‘Stars along the way’ e soprattutto la divagazione di tastiera su ‘Orphans of the Universe’, davvero magistrale). Insomma, un disco di prog ben collaudato, facile ma non banale, raffinato ma non certo di rottura. In effetti, ispirato e fatto bene, il debut dei P-SA ha un unico vero limite. Non la somiglianza agli Spock (anzi, è parecchio più fresco delle ultime due prove), quanto il portare con se un immanente sapore di già sentito. Piace molto la già citata ‘Orphans of the Universe’, ‘No one ever died to make me King’ conquista col suo ritmo incalzante; anche ‘No Land’s Man’ potrebbe essere una buona hit per gli amanti del genere. Ma per quanto tempo ce le ricorderemo?
Quello che ci vorrebbe, sarebbe la possibilità di dare una continuazione discografica a questo debut album, così come un certo distanziamento dal gruppo principale (la semplificazione non può fare più di tanto) ed una certa voglia di osare. Il disco rimane molto buono, una piacevole sorpresa per questo 2019 che di sorprese ne ha già regalata qualcuna.