Recensione: Pedal to the Metal
L’autentico die-hard fan dell’AOR va in brodo di giuggiole al solo pensiero di una reunion ovvero di una nuova e magari inattesa release discografica di qualcuna delle band che hanno fatto la storia e la gloria di questo genere musicale.
La libidine musicale del perfetto melodic-rocker è altrettanto solleticata (per certi versi anche di più) dai ritorni di fiamma di formazioni ed artisti che, pur non avendo conosciuto la durevole ed intensa fama di Journey, Toto & company, hanno regalato al mondo del rock veri e propri gioiellini di rock “duro ma patinato”.
Tra i musicisti più brillanti in tale ambito, un posto di primo piano spetta certamente al tastierista Mark Mangold.
Erano gli albori degli anni ottanta, quando il tastierista Mangold, proveniente dagli American Tears, creò, infatti, i Touch, artefici di un omonimo album che costituisce uno dei più formidabili esempi di pomp/AOR della storia.
Dopo lo scioglimento dei Touch, formazione di breve benché straordinaria vita, il musicista non è stato certo con le mani in mano. Produttore ed autore di grande talento, oltre che tastierista, per vari cantanti, e soprattutto per il Micheal Bolton dei tempi migliori, Mangold ha anche dato il “la” a vari progetti musicali, tra i quali il più rilevante è quello dei Drive, She Said.
I Drive, She Said vedevano il tastierista unire le forze con il cantante Al Fritsch. Il duo ha realizzato, con il piccolo aiuto di un po’ di amici come Bob e Bruce Kulick, Fiona e Benny Mardones, un’altra grande gemma del rock adulto e melodico. Stiamo parlando del loro omonimo primo LP, stracolmo di vere e proprie perle di musica patinata, raffinata e carica tanto di grinta che di gustosa melodia. In seguito i D,SS hanno proseguito la propria carriera con il più duro Drivin’Wheel ed il più eclettico Excelerator.
Dopo una lunga fase di pausa, interrotta solo nel 1998 da un’antologia con inediti, i nostri eroi dell’AOR si sono riaffacciati sul mercato per l’ultima volta nel 2001, con l’album Real Life. Poi, più nulla (sebbene Mark abbia dato eccellente segno di sé grazie a The Sign e The Radiant).
Evidentemente, però, la riapparizione come Touch al Firefest del 2014 deve aver ingolosito la Frontiers Records nei confronti dell’arte di Mangold, e allo stesso musicista deve essere tornata la voglia di suonare nuove canzoni.
Così, ripresi i contatti col socio Al Dritsch, ecco Mark ritornare in pista con i Drive, She Said, e con un nuovo scintillante album appunto per la solita, benemerita Frontiers, intitolato con un loro vecchio brano live mai inciso, “Pedal to the Metal”, la notizia della cui uscita ha appunto attizzato l’attesa del die-hard fan evocato nelle premesse di questa recensione.
Naturalmente l’aspettativa dell’ammiratore in questione è per un lavoro che riproduca atmosfere e stili delle opere del passato. E, in effetti, in apertura Touch richiama, sia nel titolo che nel riff, e quasi ai limiti dell’autoironica (più che autocelebrativa) parodia, You Don’t Know (What Love Is), hit dei Touch poi riproposto anche dai D,SS, ed offre spunti certamente allegri e piacevoli. A parte l’innegabile gradevolezza, si rimane, però, persino un po’ interdetti per l’eccessiva somiglianza, che ritroviamo poi pure in Lost In You, maggiormente spruzzata di melodia.
Ma in realtà l’inizio in parte inganna sugli intenti artistici del duo. Il CD, infatti, propone anche pezzi come Rainbows And Hurricanes, che richiama (peraltro anche qui molto piacevolmente) atmosfere di tanto pop e rock contemporaneo. Ed anche I’m The Nyte, col suo barcamenarsi tra elettronica e melodie contemporanee, sembra votarsi più alla dance ed all’alternative piuttosto che all’AOR, risultando un tantino fuori contesto ancorché suggestiva.
Sia chiaro che qui i Drive, She Said non paiono volersi adeguare al gusto imperante oggidì, quanto piuttosto provare a dare una briosa lezione di stile a gente come 30 Seconds to Mars e dintorni
Non solo. Altre influenze, eclettiche e diverse dal classico suono del primo album dei nostri, appaiono anche altrove. Canzoni, ad esempio, come All I Wanna Do, unplugged e molto suggestiva, sembra fare il verso ai noti successi “slow” degli Extreme, mentre su un fronte più metallico Writing On The Wall corre sui binari di un trascinante rock con più di qualche influsso Deep Purple evidente nel gioco delle tastiere.
Sia chiaro che, comunque, la maggior parte del full-length è, invece, l’atteso peana incondizionato al miglior Adult Oriented Rock. Pedal To The Metal, difatti, è canzone anthemica e trascinante, introdotta dalle tastiere solenni ma sviluppata come un uptempo svelto e innervato da brillanti inserti d’ascia. In ‘R Blood, pure, è accattivante assai grazie agli intrecci vocali molto catchy, alle melodiche chitarre e ai raffinati interventi dei tasti d’avorio.
Il rock adulto imperversa anche altrove, poi, grazie a In Your Arms, ballata di grande eleganza condotta tra intarsi delle tastiere e della sei-corde, e in cui ascoltiamo Fiona come seconda voce, ed a Said It All, altro raffinato slow, commovente nella migliore tradizione AOR.
Pure la nervosa Rain Of Fire s’immortala al proscenio melodic-rock con il suo hard irrequieto ma lucidato e cromato dagli interventi delle tastiere.
Pedal To The Metal, insomma, pur corteggiando i nostalgici dell’Adult Oriented Rock dei tempi che furono, non disdegna sguardi verso rock e pop contemporanei, che lo rendono più sorprendente di altri lavori del genere e compensano gli inserti di ostentato e divertito “quasi auto-plagio”.
Insomma, è un ritorno che, pur non facendo gridare al miracolo, soddisferà gli appassionati dei Drive, She Said, offrendo nello stesso tempo spunti inattesi ed interessanti.
Francesco Maraglino