Recensione: Pentecost III
Non sono molti i gruppi che possono vantarsi di riuscire a toccare l’animo in modo così sottilmente profondo come gli Anathema: da oramai più di dieci anni una delle realtà più conosciute e polimorfe nel panorama metal, questo gruppo britannico ha saputo inanellare un successo dopo l’altro nella sua carriera, cambiando pelle più e più volte ma senza variare l’intensità e la caratura delle emozioni che la loro musica è in grado di trasmettere. Era il 1995 quando uscì Pentecost III, un EP forse ingiustamente sottovalutato e poco considerato, ma in realtà uno dei punti focali della crescita musicale degli Anathema, oltre che uno splendido disco, fra i migliori della loro produzione. Nei primi anni ’90 gli Anathema erano uno dei colossi del doom/death metal, un genere di cui, insieme a gruppi come My Dying Bride e Paradise Lost, avevano definito le caratteristiche fondamentali con album eccellenti come The Crestfallen e Serenades. Ma mentre questi primi due dischi puntavano di più sulla pesantezza dei suoni e la lentezza delle composizioni, Pentecost III rappresenta un preludio delle soluzioni sonore che poi troveranno pieno sfogo nel successivo The Silent Enigma. Pentecost III inoltre è anche l’ultimo album degli Anathema ad essere cantato dall’ispiratissimo Darren White, che col suo potente growl, il suo particolare cantato “lamentoso”, e le sue controverse e sofferte liriche ha caratterizzato tutta la prima era di questo gruppo; poco dopo poi Darren White lascerà gli Anathema a causa di divergenze
musicali e personali.
Nonostante l’atmosfera generale sia piuttosto pesante e ancora molto legata al doom/death (Memento Mori è indicativa in questo senso), iniziano a intravedersi
qui quelle aperture acustiche e melodiche permeate dall’inconfondibile feeling nostalgico e sottilmente malinconico di stampo tipicamente Anathema, che poi diventeranno un vero marchio di fabbrica del loro sound. A sottolineare questo cambiamento di direzione è anche il modo di cantare di Darren White, che rispetto a Serenades abbandona il growl (che fa capolino solo in Memento Mori) in favore di uno stile vocale a metà fra il canto e l’interpretazione, in una vena molto sofferta e disperata.
Nonostante sia “solo” un EP, Pentecost III dura ben quasi 45 minuti: tutte le canzoni sono piuttosto lunghe (ad eccezione della quarta traccia strumentale), ma senza mai risultare prolisse o noiose.
La prima traccia, Kingdom, è anche forse la migliore del disco, nonchè una delle più belle mai scritte dagli Anathema: una canzone lunga quasi 10 minuti, che cresce lentamente, che sembra voler irrompere da un momento all’altro in tutta la sua violenza, ma che invece continua a tenere sulle spine l’ascoltatore con un tristissimo e distante arpeggio di chitarra che avanza lentamente e sembra protendere all’infinito, che riesce a trasmettere un nichilistico senso di rassegnata malinconia, e che esplode solamente a più di metà della canzone, sfociando in tutta la sua rabbia.
Mine Is Yours To Drown In invece è una canzone più diretta e pesante, e i suoi riff sporchi, a tratti quasi sabbathiani, gli conferiscono un sapore old-style; la pesantezza delle chitarre e delle atmosfere viene in parte stemperata verso la fine, quando gradualmente si fanno spazio, all’interno del muro chitarristico, dei malinconici arpeggi che progressivamente si spengono e portano alla fine della canzone.
La successiva We, The Gods è un altro dei punti forti dell’ EP: anche qui abbiamo un “costruirsi” lento e graduale, sottolineato dalla voce di Darren White che in questi frangenti è particolarmente lamentosa. Solo dopo alcuni minuti le ritmiche cambiano, assumendo la forma di una vera e propria “cavalcata” dove il suono delle chitarre si fa plumbeo, cupo, opprimente. Ancora un stacco acustico poi, prima di ricominciare con un crescendo incalzante e senza sosta (dove spicca un ottimo lavoro di batteria) che conduce alla fine dei dieci minuti di questa bellissima canzone.
L’intermezzo strumentale Pentecost III ripropone il contrasto fra atmosfere malinconiche e opprimenti, con uno stacco acustico centrale che senza soluzione di continuità sfocia nella pesante parte finale, quasi a simboleggiare uno distacco netto fra la prima parte dell’album e l’ultima, dove le atmosfere cambiano decisamente registro.
Memento Mori, l’ultima traccia, infatti ha un andamento piuttosto differente dalle prime tre: qui la nostalgia e la malinconia lasciano spazio alla rabbia e alla violenza, espresse da delle liriche decisamente più cupe rispetto a quelle delle altre canzoni e dalla presenza del growl. Il ritmo si mantiene lento e cadenzato fino a quasi metà della canzone, dove ha luogo una violenta sfuriata retaggio probabilmente degli esordi death metal del gruppo (infatti Memento Mori era presente anche nel loro primo demo An Illiad of Woes).
Tuttavia il cd non è ancora finito dopo Memento Mori: dopo alcuni minuti di silenzio sono presenti due ghost track, ossia la breve strumentale Horses e 666, una canzone veloce e più tipicamente death metal, apparsa già sul 7” We Are The Bible in una forma leggermente diversa col nome di Nailed to the Cross/666.
Pentecost III è sicuramente una delle creazioni migliori degli Anathema, un album fondamentale nella loro evoluzione, capace ancora oggi di risultare moderno pur restando legato alle radici… un capolavoro che non dovrebbe mancare nella collezione di nessun appassionato di questo gruppo e di doom metal!
Giuseppe Abazia
Tracklist:
1 – Kingdom
2 – Mine Is Yours To Drown In (Ours Is The New Tribe)
3 – We, The Gods
4 – Pentecost III
5 – Memento Mori