Recensione: Perfect Strangers
Cominciò tutto con un’affollata conferenza stampa nel Connecticut, a Greenwitch. Fu grazie a quell’occasione che fu possibile, il 3 novembre 1984, apprendere la notizia ufficiale della reunion di una fra le band hard rock più importanti nel panorama musicale degli ultimi 30 anni. I Deep Purple, insomma, dopo ben 10 anni, con quella conferenza stampa erano ritornati “in campo” riuniti nella line up storica, quella per intenderci che diede luogo alla produzione di dischi epocali come “In Rock” e “Machine Head”, oltre che allo storico e indimenticabile live “Made in Japan”. Dopo quel momento di pubblica conferma, il combo capitanato da Roger Glover, quasi a voler fugare qualsiasi illazione di “reunion in odore di soldi”, si cimentò subito nella lavorazione di un album tutto nuovo. Fu così che in quello stesso anno uscì “Perfect Strangers”, album quasi interamente scritto da Ritchie Blackmore con l’ausilio degli altri componenti della band. Già il titolo risultò evocativo, semplice ed efficace allo stesso tempo, lasciando ben sperare ai fan di un ritorno sulle scene in grande stile.
Ma passiamo all’analisi del disco. L’apertura è affidata a “Knocking at your back door” ed è subito un classico riff del purple-style a farla da padrona. Ian Paice introduce il brano cadenzando la ritmica e lasciando, nel modo più lineare che mai, entrare il riffing elegante e accattivante del “Man in Black”: Mr. Blackmore. Il pezzo sembra quasi riportarci ai tempi d’oro della band con quel refrain cantato con la solita classe da Ian Gillan e i solos di Blackmore sono semplicemente perfetti e mai sottotono, quasi “trainanti” il resto degli strumenti. Dopo questo ottimo inizio, una brillante “Under the gun”, con i suoi riffs vivaci, sostenuti da una ritmica basso/batteria in perfetta sincronia. Da notare l’ottimo lavoro di Lord che, con le sue belle armonizzazioni, sempre in evidenza, dona alla song il giusto equilibrio tra momenti vivaci (il refrain, anche stavolta cantato bene da Gillan) e passaggi in qualche modo più cupi. Anche qui la prova di Blackmore alle lead guitars è encomiabile, ad ulteriore dimostrazione del fondamentale apporto dato dal musicista al “Purple-project”. “Nobody’s Home” in qualche modo continua il discorso musicale intrapreso dal combo con un buon songwriting che non fa che ribadire la voglia dei nostri cinque di pescare nel loro più tipico sound cercando però di mantenerlo fresco e sempre attuale. La terza track, “Mean Streak”, risulta alla fine la giusta sintesi degli intenti di Glover e soci regalando all’ascoltatore momenti di graffiante hard rock, riffing pieno di brio e la classica maestria nel creare costruzioni melodiche, specialmente (anche questa volta) nel bel refrain. Alla quarta traccia, la title track, si può davvero prendere coscienza del livello elevato al quale la band può arrivare sfornando un brano che può essere considerato uno dei migliori della “Marck II” del combo britannico. La song si snoda, in modo sinuoso e coinvolgente lungo un riff molto bello, che risulterà elemento portante di tutta la canzone. Quando poi la voce di Gillan, perfettamente impostata, intona “Can you remember… can you remeber my name…”, la storia sembra quasi entrare nelle orecchie dell’ascoltatore. In sostanza un brano impeccabile in ogni suo aspetto e sicuro “biglietto da visita” dell’intera opera. Con la seguente “A Gypsy’s Kiss” la band rispolvera nuovamente la sua voglia di suonare hard rock senza particolari fronzoli e con la consueta classe. Molto ben sincronizzati il riffing e le armonizzazioni di John Lord. Il brano viaggia su ritmiche sostenute ed è costruita su varie soluzioni armoniche nelle quali la fanno da padrona sia i fraseggi sempre ben eseguiti dal “Man in Black” e le ottime performances di Lord alle tastiere. Con “Wasted Sunset” i Deep Purple danno prova d’avere capacità di creare atmosfere malinconiche e a tratti struggenti, con un song nella quale un bell’assolo ne impreziosisce la già buona fattura. Da notare Ian Gillan, che da una buona prova dietro al microfono calandosi a dovere nell’atmosfera romantica del pezzo. Con “Hungry Daze” ritroviamo in pieno certi fraseggi che sembrano essere stati scritti durante una sessione di registrazione di un qualsiasi disco dei “Rainbow”. La track ha un riffing molto “barocco” e Gillan da prova di particolare versatilità lungo tutta la durata del brano. “Not responsabile”, ultima song dell’album, ha una ritmica suadente e “calda”, sulla quale la chitarra di Blackmore costruisce un riffing “graffiante” e un assolo, eseguito con l’ausilio dello “slide”, davvero molto accattivante.
Per concludere, questo “Perfect Strangers” è un disco che non delude ribadendo, una volta di più, l’importanza di una band fondamentale per la storia dell’hard rock e aggiungo che questo platter non può mancare nella discografia d’ogni buon rocker.
Tracklist:
1) Knocking at your back door
2) Under the gun
3) Nobody’s Home
4) Mean Streak
5) Perfect Strangers
6) A Gypsy’s Kiss
7) Wasted Sunset
8) Hungry daze
9) Not Responsable
10) Son of Alerik (bonus track)