Recensione: Perils Of The Deep Blue
Diciamolo chiaramente, Morten Veland negli ultimi anni soffre per gravi problemi d’identità, non necessariamente dovuti all’aver rinnegato, con 9 destinies & a downfall, il glorioso sound degli esordi in favore di un gothic molto più melodico e commerciale, cosa che aveva anche molto ridotto il suo ruolo di growler. Nulla di male, soprattutto in virtù del fatto che il menzionato platter era tutt’altro che da buttare, una volta superata la delusione iniziale. Da buttare invece sono state le due release venute dopo: piatte, songwriting scialbo e da dimenticare idee poche o punte, sebbene il gothic negli ultimi tempi non viva proprio di idee nuove.
Ora il nostro, sempre saldo timoniere dei suoi Sirenia, cerca di invertire la rotta con questo nuovo Perils of the deep blue. Presentato in pompa magna dallo stesso Veland, questa nuova fatica si propone di dare al nuovo corso dei Sirenia maggior spessore e magnificenza sonica, nel tentativo di riunire la grandeur dei primi album all’appeal degli ultimi. In tal senso basta una rapida occhiata al minutaggio, dato che Perils of the deep blue dura buoni venti minuti più dei suoi predecessori. Ad ogni modo si sa che ogni artista cerca di portare acqua al suo mulino; ad ogni modo gente anche più famosa dei Sirenia (tipo gli U2 o i Metallica) insegna che tornare sui propri passi possa portare a delle ciofeche assurde. Ma diamoci dentro.
Affrontando il disco ci troviamo innanzi un’intro facile da superare, dopodiché veniamo piacevolmente stupefatti da Seven widows weep, pezzo che, nonostante la netta predominanza del nuovo sound, sembra davvero restituirci i vecchi Sirenia. Cori pomposi, che al sottoscritto non hanno mai fatto impazzire ma che si sono sempre rivelati di indubbia efficacia, tastiere magniloquenti, frequenti cambi di ritmo, perfino un rimasuglio di growl. La traccia successiva ci riporta decisamente più in basso. My destiny coming to pass infatti si contorce attorno ad una strofa di una banalità disarmante e pure guadagna la salvezza grazie all’ottima prestazione di Aylin che, soprattutto nel ritornello, mette i brividi. Decisamente da fucilazione invece Ditt endelikt, un pezzo piacevole (per chi apprezza i The Rasmus), cantato pure in madrelingua da Joakim Næss, purtroppo interrotto da due passaggi atmosferici che nulla c’entrano con la song e vedono pure il recitato di Aylin in spagnolo. E ora voi spiegatemi che senso abbia mischiare queste due lingue.
Questa è una sensazione che si ripete abbastanza spesso, ovvero che molti brani anche discreti vengano spezzati, e quindi uccisi, infilando a viva forza break atmosferici che poco hanno a che fare con ciò che sta attorno. Un po’ come se Veland, a suo tempo maestro in questa pratica, si sia perso nella sua voglia di strafare.
Si prosegue tra simili alti e bassi sino a Stlle kom døden, autentico vertice del disco, e forse della produzione sireniana tutta. Un pezzo imponente da ben dodici minuti, caratterizzato da un incedere opulento, malinconico e decadente come non si sentiva da anni, buoni cambi di ritmo. Perfino i break di cui sopra si infilano meravigliosamente nella composizione. Magnifico, ancora una volta. Ma passato questo attimo di vivido stupore le ultime song riprendono il trend dell’album: The funeral march ed A blizzard is storming si districano ancora tra alti e bassi, Profound scars invece si attesta su una mediocritas non esattamente aurea ma per lo meno ottonata.
Insomma un disco scritto con buoni propositi, che vede il ritorno di Veland ad urla relativamente diffuse e strutture elaborate. Risulta penalizzato dalla voglia di strafare e da un composizioni non sempre impeccabili, e basta sentire An elixir for existence o un più pragmatico Vinland Saga per ricordarsene. Ad ogni modo, dopo gli ultimi due dischi decisamente sotto tono, il vecchio Morten manda un segnale di vita e ci consegna una cantante, Aylin, che ha varcato i confini della piena maturità artistica.
Sebbene si tratti di un lavoro di discreta qualità per quel che riguarda la produzione, il songwriting è ancora lontano dall’essere ai livelli superbi cui i norvegesi ci avevano abituato. Un paio di pezzi raggiungono livelli davvero alti, altri si rivelano essere autentici scivoloni. Quindi se comunque non possiamo bocciare Perils of the deep blue, non possiamo nemmeno sbracciarci in lodi sperticate. Ci limitiamo a rimandare i Sirenia alla prossima release, nella speranza (remota) di trovarci davanti ad un disco di 3 composizioni sulla scia di Stille Kom Døden più un pezzo allappa-pubblico come Seven widows weep. Ci speriamo poco, ma finché c’è metallo c’è vita e finché c’è speranza c’è metallo.
Tiziano Vlkodlak Marasco
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