Recensione: Perpetual Descending Into Nothingness
Nello sport, e in particolar modo nel calcio, difficile che la Germania faccia ‘flop’. Lo stesso accade nella musica, quindi nel metal e specificamente nell’ambito estremo. Con il nuovo album, intitolato “Perpetual Descending Into Nothingness”, gli Obscure Infinity sperano pertanto di non finire nel gruppo dei falliti, giacché il lavoro è il terzo della serie. Circostanza che, come da tradizione, segna il passo fra la giovinezza e la maturità.
Una maturità che, almeno a livello discografico, si può affermare sia stata raggiunta, poiché dal 2007, anno di nascita, i Nostri hanno sfornato parecchio materiale: un demo (“Into The Depths Of Infinity”, 2008), quattro split (“United In Death”, 2011; “Deathronation / Obscure Infinity”, 2013; “Deadly Collision / Joyless Flesh” con gli Humiliation, 2013; “Souls Of Eternal Damnation” con i Wound, 2014) e tre full-length (“Dawn Of Winter”, 2010; “Putrefying Illusions”, 2012; “Perpetual Descending Into Nothingness”, 2015).
Con un notevole senso professionale, i cinque di Westerwald hanno messo a frutto questa notevole esperienza dando luogo a un sound che, in “Perpetual Descending Into Nothingness”, si mostra adulto, pienamente formato e, soprattutto, assai solido. Rappresentando, con il disco stesso, uno stile piuttosto personale anche se non stravolgente i moderni dettami del death metal. Di quello radicato nell’ortodossia senza esserne intrappolato dalle vischiose, tentacolari propaggini. Un carattere che si percepisce in ogni istante, nota dopo nota, in un’opera che, con i piedi ben saldi nel passato, è in grado di osservare con efficacia il presente e sbirciare anche un po’ nel futuro.
Passato che, oltre a rimandare ai leggendari act scandinavi dei primi anni novanta, pesca con una certa continuità nel thrash della metà degli anni ottanta, Slayer in primis. Presente che si configura mediante le tipiche accelerazioni al fulmicotone scatenate dai blast-beats, utilizzate comunque con una certa parsimonia, nonché una marcata attitudine a percorrere tetri sentieri lastricati di tetra, oscura malinconia. Una strizzata d’occhio al tempo che verrà, infine, può interpretarsi da alcuni intarsi melodici rinvenibili nei soli di chitarra e nell’introduzione di qualche apertura epica disegnata dalle tastiere. E la bravura degli Obscure Infinity è proprio qui, principalmente: nel saper amalgamare con classe e naturalezze tanti flavour diversi in un unico sapore, indicativo del loro marchio di fabbrica.
Una forza, questa, proveniente da un evidente affiatamento fra i membri della band, ciascuno in grado di fornire il proprio contributo alla causa mantenendosi nei propri limiti artistici. Senza sforare mai per regalare all’ensemble in suo caratteristico sound.
È forse meno compatto, invece, il gruppo delle canzoni, un po’ altalenanti della loro riuscita complessiva. Basti prendere la coppia ‘The Uttermost Descend / A Forlorn Wanderer’, al cui strabiliante riff portante che regge lo scheletro della prima, non fa seguito un’altrettanta capacità di sviscerare i grumi di vermi dell’anima con slow, mid-tempo e arpeggi di chitarra classica. Un andamento oscillante che inficia leggermente la riuscita globale di “Perpetual Descending Into Nothingness”, benché pezzi come “Sorcery Of The Black Souls”, la già menzionata “A Forlorn Wanderer”, “Into The Undertow” e “From Odium And Disease” rappresentino una seria minaccia all’integrità delle vertebre cervicali. Encomiabile, infine, il tentativo di aumentare la dose di melodia compiuto con “Beyond Spheres And Time”, in cui gli echi del passato attraversano le sabbie del tempo sino a lambire gli Iron Maiden degli inizi.
Niente di eccezionale, ma neppure di scarso. Per ora gli Obscure Infinity possono ancora aspettare in panchina, seppur dorata.
Daniele “dani66” D’Adamo