Recensione: Perpetual Flame
È tornato. Per la sedicesima volta è tornato, col suo bel faccione iper-photoshoppato e la sua inseparabile Stratocaster, a sfidare l’ascoltatore dalla tamarrissima copertina del nuovo, ostinato, eloquente più che mai ‘Perpetual Flame’. Sordo al rumorso cicaleccio dei detrattori – che nonostante tutto non riescono tutt’ora a fare a meno di radunarsi attorno ai suoi nuovi dischi per togliere le ragnatele dall’abbecedario della disapprovazione – l’indomito Yngwie Malmsteen timbra l’ennesimo cartellino con un disco che i più avranno già battezzato come uguale a tutti i precedenti prima ancora di averlo ascoltato.
Su una cosa bisogna dar loro ragione: sarebbe sciocco aspettarsi svolte sostanziali nello stile del guitar hero svedese a questo punto della sua carriera. Eppure, rispetto all’ultimo ‘Unleash The Fury’, qualcosa è cambiato. A cambiare è stata innanzitutto la line-up. Se è probabile che non saranno molti a lacerarsi le vesti per l’addio del tastierista Joakim Svalberg (che con un eufemismo potrebbe dirsi non troppo valorizzato sull’album precedente), qualche sorpresa in più ha destato la defezione di Dougie White, il quale per un attimo era parso in grado di spezzare l’anatema caduto sul microfono di casa Malmsteen, per qualche arcana ragione riottoso dal lasciarsi impugnare dalla stessa persona per più di due album di fila. Nemmeno questo addio pare comunque essere stato troppo traumatico per i fan: rispetto alla collezione di ugole d’oro sfilata alla corte di Yngwie, il buon Dougie non poteva certo considerarsi fra i più talentuosi, e le frequenti impasse dal vivo non avevano contribuito granché a elevare il suo status. Al suo posto, notizia ormai nota da tempo, l’ovunque incompreso ma sempre amato Tim “Ripper” Owens, recentemente accantonato dagli Iced Earth per fare posto all’ex-poliziotto Matt Barlow. E The Ripper potebbe veramente essere l’uomo giusto: ugola abrasiva, buon carattere, presenza scenica pari a quella di un pescivendolo (cit.) e dunque fisiologicamente incapace di mettere in ombra colui che è e deve essere il protagonista assoluta in ogni show dal vivo. Staremo a vedere. L’altra notizia, passata più in sordina, è legata al ritorno di Derek Sherinian alle tastiere, la cui presenza su “Attack!!” potrebbe forse essere sfuggita ai meno attenti. E in effetti, se non ci fosse scritto sul booklet, rischierebbe di sfuggire anche questa volta.
Ma c’è un ulteriore cambiamento che potrebbe cogliere di sorpresa chi aveva prestato attenzione al corso più recente della discografia di Malmsteen. L’approccio degli ultimi album, soprattutto ‘Attack!!’ e ‘Unleash The Fury’, aveva privilegiato la varietà, dilatando la tracklist con una serie di pezzi spesso molto diversi da loro che, non sempre con successo, pescavano qua e là dalle varie sfacettature del repertorio dei Rising Force. Stavolta non è andata così. Chi ha visto dal vivo i recenti show con Tim Owens alla voce, si è facilmente accorto della particolare dimestichezza mostrata da questi con i pezzi dell’era-Vescera, in particolare il capolavoro ‘Seventh Sign’ e l’ancora ottimo ‘Magnum Opus’. Sarebbe probabilmente un azzardo ipotizzare che uno zuccone come Yngwie possa aver adattato il songwriting sulla base delle caratteristiche di un altro membro della band, ma sta di fatto che sono proprio questi – insieme a certi frangenti di Alchemy – gli album richiamati più da vicino da ‘Perpetual Flame’. Il disco propone infatti un heavy metal epico e potente, incline alla velocità nella sua ovvia matrice neoclassica, che richiama alla mente classici al limite del heavy/power come ‘Never Die’ o ‘Wield My Sword’.
L’ultima notizia, che forse a qualcuno non interesserà granché, è che la vena compositiva sembra tornata a livelli di ispirazione interessanti. Senza azzardare inopportuni paragoni con i tempi migliori, bisogna infatti riconoscere che il tiro dei singoli pezzi appare decisamente superiore a quello delle più recenti da studio. Riducendo la tracklist Yngwie sembra (finalmente) essersi deciso a espungere i brani meno riusciti, che spesso penalizzavano la resa complessiva degli ultimi album, sfoderano una serie di hit sorprendentemente accattivanti. Da ‘Death Dealer’ fino a ‘Four Horseman’ la ricetta è sostanzialmente la medesima: ritmi sostenuti, strofa arrembante, chorus potente e subito memorizzabile, sound piacevolmente ottantiano, solita straripante overdose di soli a cascata. Nella loro linearità i brani ottengono esattamente quello che vogliono, cioè colpire e coinvolgere: impossibile non esaltarsi nell’omaggio al cavallino rampante più famoso del mondo dal titolo ‘Red Devil’. L’unica eccezione al trend è inizialmente rappresentata dalla peraltro devastante ‘Live To Fight’, epico mid-tempo dai toni apocalittici, che va a fare il paio con ‘Priest Of The Unholy’, in cui rovesciando l’albero genealogico si potrebbero ravvisare diffusi richiami ai Symphony X. La chitarre restano ovunque incontrastate protagoniste e non si fanno troppi problemi a togliere sovente la parola al paziente Owens, dilungandosi nelle ben note sequenze di armoniche anche oltre gli standard abituali, al punto che per qualcuno il disco potrebbe finire dopo l’aggressiva ‘Be Care For What You Wish For’. Le ultime cinque tracce presentano infatti ben tre strumentali, e fin da ‘Caprici Di Diablo’ (che rieccheggia fin dal titolo la celeberrima ‘Arpeggios From Hell’) qualcuno potrebbe essere tentato di premere il pulsante “skip” fino a terminare anzitempo la riproduzione. Così facendo tuttavia si perderebbe almeno un altro paio di chicche. In primis la ballatona di vaga memoria hendrixiana ‘Magic City’, davvero evocativa sebbene prolissa nel finale. Ma soprattutto la grandiosa ‘Eleventh Hour’, nuovo mid-tempo dallo spiccato sapore orientaleggiante, che con il suo incedere solenne e marziale rappresenta senza dubbio uno dei punti più elevati della tracklist.
Al di là dei gusti personali, il vero difetto di ‘Perpetual Flame’ è la solita, lacunosa produzione. Fissato come sul fai-da-te in sala registrazione, Yngwie deve avere utilizzato il 110% delle proprie risorse psicofisiche per curare la produzione delle chitarre. Arrivato al resto della strumentazione, si sarà forse trovato senza energie, al punto da decidere da cacciare le registrazioni di basso, batteria e tastiera così com’erano, troppo stanco per ricavarne suoni nitidi e puliti. E ben poco ha potuto fare l’esperto Roy Z (Bruce Dickinson, Rob Halford) al mixing per rimediare. Difficile stabilire se sia meno improbabile che lo svedese si decida a leggere il manuale di istruzioni della sua personale saletta domestica o che si decida ad affidare pure la produzione a un professionista. Ma questo è Yngwie, e da lui queste cose bisogna aspettarsele.
Alla resa dei conti, ‘Perpetual Flame’ è un’uscita che spezza la tendenza degli ultimi album rivolgendosi più addietro nel passato. Indubbiamente positivo l’innesto di Tim Owens alla voce e, soprattutto, il ritorno di una buona mano nella fase di composizione. Dall’altro canto i limiti dell’uscita sono dettati dalla deficitaria produzione e dagli ormai universalmente noti eccessi di protagonismo dello svedese, che ormai i fan gli perdonano più per abitudine che per rassegnazione. Di innovazione del resto traccia non v’è alcuna, e se avete una minima idea di chi stiamo parlando sapete anche che non poteva esservene. Del resto Malmsteen i suoi capolavori li ha già scritti – e non sono pochi – e da molto tempo (da sempre?) ormai i suoi dischi non sono indirizzati agli esperti di chitarra, ma solo agli appassionati di metal classico. Che più di così, nel 2008, allo svedese più pacchiano del mondo proprio non potevano chiedere.
Riccardo Angelini
Tracklist:
1. Death Dealer
2. Damnation Game
3. Live to Fight (Another Day)
4. Red Devil
5. Four Horsemen (Of the Apocalypse)
6. Priest of the Unholy
7. Be Careful What You Wish For
8. Caprici di Diablo
9. Lament
10. Magic City
11. Eleventh Hour
12. Heavy Heart