Recensione: Phase2
Prendete la metà dei gloriosi Dokken (il chitarrista George Lynch e il bassista Jeff Pilson), aggiungete (al posto del fratello ex Dokken Mick, ormai in pensione) il batterista ben imparentato Steve Brown, piazzate dietro il microfono un vocalist di alta caratura come Robert Mason (correntemente nei Warrant, ma ai più noto come cantante dei Lynch Mob del già citato George), ed ecco pronta la line up del secondo album dei The End Machine. In pratica, i Dokken senza Dokken o giù di lì.
The End Machine aveva esordito nel 2019 con un primo lavoro ben accolto, come si suol dire, da critica e pubblico, esibendo un invidiabile equilibrio tra richiami agli anni Ottanta cui appartengono i suoi musicisti e sonorità più attuali.
“Phase2” – così s’intitola il nuovo lavoro – segue lo stesso percorso, sebbene con uno sguardo maggiormente rivolto ai suoni antichi del decennio del secolo scorso di massimo fulgore dei musicisti coinvolti.
Nel florilegio di canzoni hard rock e class metal qui proposte, spiccano tracce come Crack The Sky. un uptempo grintoso e catchy che avrebbe fatto faville nelle classifiche dei tempi che furono, Scars, una semiballad intensa virtuosamente intarsiata da note di chitarre acustiche ed elettriche, e Dark Divide, un midtempo dalle grandi e evocative aperture melodiche e ingemmata di assoli melodici della sei-corde.
Ma tutto il disco è privo di cali di tensione, e si muove baldanzoso tra canzoni di rilevante livello compositivo e di feeling, senza fastidiosi riempitivi.
La veloce Blood And Money, ad esempio, si pavoneggia spavalda con i suoi riff possenti e circolari. Shine Your Light, ancora, è un altro hard rock grintoso e sfacciato in cui i lick chitarristici schizzano sopra l’impeto della sezione ritmica. Destiny mescola altresì un incedere graffiante a tanta melodia.
Proprio il fronte del full-length maggiormente dedito alla melodia vede spiccare We Walk Alone (una quasi-ballata dall’incedere piacione e “coverdaliano” con qualche passaggio più tagliente e ricami di Lynch melodici e limpidi) e Born Of Fire (altra semiballad intensa e armonica impreziosita dalle note scroscianti dell’axeman).
Fa storia a se, invece, Devils Playground, aperta da un’intro di elettrica, poi seguita da uno sviluppo che mischia le carte della “piacioneria” con più ruvide suggestioni hard blues.
Con “Phase2”, The End Machine edifica un porto sicuro per i nostalgici, vecchi e nuovi, dei suoni dell’hard melodico degli Eighties (e dei Dokken in particolare) i quali possono qui trovare rifugio e tuffarsi tra canzoni che per ispirazione, feeling, arrangiamenti, esecuzioni sopraffine da parte di talentuosi e solidi artisti, non temono confronti con altre produzioni del settore.
Francesco Maraglino