Recensione: Phases
A soli due anni dall’album di debutto, torna il quartetto della Pennsylvania capitanato da Max Portnoy con un nuovo platter dal minutaggio corposo e tanta voglia di stupire. La line up è rimasta quasi la stessa: il chitarrista Derrick Schneider, deciso a frequentare il Berklee College Of Music, nel 2016 è stato sostituito da Ryland Holland. Al songwriting, oltre al figlio dell’ex-Dream Theater, resta determinante Thomas Cuce, alle prese anche con lunghe parti in scream, oltre a quelle in clean.
Questa volta, infatti, i Next To None propongono un sound più vicino la metalcore che al progressive metal, nel tentativo di svecchiare un genere che ormai sembra aver detto tutto, o quasi, nel decennio appena trascorso. Seppur dotati di buona tecnica, i quattro ragazzi non riescono ancora a trovare una vera originalità d’intenti e sebbene tra le loro band di riferimento citino gruppi (per cui hanno aperto alcuni show) come Between The Buried And Me e Haken (veri fautori di una palingenesi progressive), Phases si rivela un full-length troppo sbilanciato e difficile da metabolizzare anche dopo più ascolti. Il prodotto si presenta bene, con un artwork targato Travis Smith (Opeth, Devin Townsend, Anathema), che mette in immagini l’idea di una durata vitale segmentata e richiamando certe tinte cupe e ricercate scelte come copertina da band come i Zero Division e i Nevermore.
Va dato atto, però, che la voglia di emancipazione inizia a farsi sentire: al mixing è stato chiamato in causa “Nolly” Getgood (Periphery) e l’album è stato prodotto dagli stessi Next To None per volere di Portnoy (magari suo padre avesse potuto permetterselo nel 1992!). Quattro pezzi – “Answer Me”, “Clarity”, “Denial” e la lunga “The Wanderer” – sono legati al tema del dolore, ma non c’è un vero concept. Immergiamoci nell’ascolto.
Dopo un breve intro francamente pleonastico, “Answer Me” attacca con il giusto piglio con delle rullate creative di Portnoy e tappeto di pianoforte. Tutto dura pochi istanti, lo scream di Cuce è un pugno allo stomaco, le ritmiche dropped e la doppia cassa martellante proiettano l’ascoltatore in un tunnel sonoro dall’indubbia potenza, ma troppo monolitico. A circa metà brano la sezione che dovrebbe essere quella progressive non ha capo né coda; va meglio il finale con parti melodiche in clean. “The apple”, il brano centrato sull’essere Max Portnoy (vedi intervista) non regala brividi. Certo, va dato atto al drummer che sa farci alle pelli e col doppio pedale; un attacco così ficcante è invidiabile, peccato, però, che poi la traccia si perda in meandri pseudo-djent poco convincenti, linee vocali anodine e inserti di scratch inutili.
I tre minuti scarsi di “Beg” dipingono un quadro astratto con alcuni momenti theatrical, ma nasce spontaneo il desiderio di schiacciare il tasto “SKIP”.
E non siamo nemmeno a metà dell’album. L’accoppiata “Alone”-“Kek” è dura da digerire: venti minuti di metalcore allo stato puro in barba a ognicritica alla tanto deprecata laudness war. I primi 180 secondi di “Alone” in realtà sono buoni, se si prescinde da certi loop di tastiera. Ritroviamo nei minuti finali la vera vena prog. e nel prosieguo sembra di ascoltare a tratti i Dream Theater di Black Clouds And Silver Llinings. Ci chiediamo perché sia stato lasciato così poco spazio al lato più interessante del combo americano… “Kek” è forse il brano migliore in scaletta, ma ritroviamo i soliti inserti in scratch fastidiosi, fortunatamente Cuce non indulge nello scream. Niente male anche la seconda parte di “Clarity”, con sezione in pianissimo attorno al quinto minuto e poi finale in crescendo. Si arriva provati alla canzone numero otto in scaletta. “Pause” è tutto fuorché un momento di respiro, con un’altra colata di ritmiche abbassate; “Mr. Mime” (il pokemon n.122?) è giusto un divertissement manierato; toccante, invece, l’intermezzo di pianoforte intitolato “Isolation”, che prelude alla discreta “Denial”, perfetto pezzo conclusivo… e invece c’è ancora una suite da venti minuti!
“The Wanderer” voleva essere nelle intenzioni della band il cavallo da battaglia in sede live, una traccia manifesto del sound targato NtN. Purtroppo destreggiarsi con un unico brano da più di un quarto d’ora non è cosa semplice per dei ragazzi nemmeno ventenni. A Change of Seasons è stata composta a fine anni Ottanta, però ce n’è voluto del tempo per vederla pubblicata nel 1995. I nostri potevano tenere nel cassetto questa monster track, limarla meglio e magari pensare a un futuro EP. La voglia di strafare non è mai un bene. I primi cinque minuti sono variegati e alternano momenti prog e parti lente con palm mute inflazionati. Il break a metà brano fa presagire cosa potrebbero diventare i NtN in futuro, sognare non costa nulla. Il momento sci-fi al minuto 14, invece, è goffo e disturbante senza motivo, va meglio il finale. Luci e ombre, insomma, con una maggiore coesione d’intenti e un approccio meno ingenuo alla materia sonora ci si può aspettare una suite magnifica nel prossimo album.
Phases è un passo avanti rispetto al precedente A light in the dark, però non regala una band ancora con le idee chiare. Non convince, inoltre, la produzione della batteria e l’uso delle tastiere. Per suonare contemporanei non basta mescolare sonorità alla moda e diavolerie tecnologiche: quando il quartetto statunitense avrà capito come proporre qualcosa di davvero originale saremo lieti di accoglierli a braccia aperte, per ora sono di nuovo rimandati.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)