Recensione: Phlegethon
L’alchimia è un’arte pericolosa. Composti instabili, ricette oscure: davanti al grasso calderone chiamato ‘prog metal’ c’è da confondersi. Qualcuno abbonda con la tecnica, altri aggiungono ingredienti a oltranza, qualche pazzo ne ricerca di strani ed esotici. Ai tempi in cui il dibattito era bollente – fine ’90, inizio 2000 – ci si faceva andare bene un po’ tutto. Oggi, all’alba del nuovo decennio, con la disputa che va spegnendosi e la scena internazionale intiepidita, molti, fra alchimisti e clienti, vanno rivolgendosi ad altre formule, meno controverse, più redditizie. Cosa resta del cosiddetto progressive metal?
I maestri di ieri non sembrano avere le risposte, e forse nemmeno se ne curano: i Dream Theater scalano le classifiche, i Pain Of Salvation ci provano, i Fates Warning si sono ritirati da molto, gli Ayreon da poco. Resta la memoria di due grandi tradizioni: quella di settore, dura, ancora recente – il metal progressive anni 90 – e quella di ampio respiro, classica, se non antica quantomeno molto vecchia – il progressive rock anni 70.
Si potrebbe discorrere a lungo sulle affinità e le differenze di spirito e contenuti fra le due correnti, ma quello che ci interessa in questa sede è una cosa sola: la loro sintesi – vale a dire, il loro superamento. Tale è l’obiettivo di ‘Phlegethon’: il nuovo Kingcrow vuol considerarsi simbolo di un modo di pensare il progressive alternativo ai canoni tradizionali. Versatile, concreto, diretto – il nuovo sound è indubbiamente moderno, più moderno di quanto gli estimatori della band capitolina potessero aspettarsi. Quando dalle casse esplode l’adrenalina di ‘Evasion’ – fulmini e saette elettroniche, riff ora ipnotico ora martellante che gildenlöwianamente salta dall’alternative al metal, ritornello killer – i tempi di Timetropia appaiono molto, molto lontani. E in effetti la teatralità e la pompa dei Kingcrow di ieri si direbbe chiusa in archivio, complice anche la separazione dall’istrionico frontman Gelsomini. Emerge un diverso eclettismo, che sfrutta appieno le – impressionanti – doti tecniche e naturali di Diego Marchesi, nome nuovo, ma nome che i metalhead dello Stivale faranno bene a imparare in fretta. La sua interpretazione fa spesso la differenza, come nella ballatona dark ‘Washing Out Memories’ – pezzo relativamente semplice, ruffiano, con un gusto melodico cupo e intimista che potrebbe rievocare gli Amorphis del post-Koskinen – dove pochi, audaci vocalizzi impediscono al refrain di assopirsi su se stesso. La grande attenzione per l’aspetto interpretativo delle liriche ben si sposa con la coralità ormai consolidata dello scuola Kingcrow, che continua a prediligere intrecci e sinergie di gruppo a exploit e staffette individuali.
Si è insistito sul taglio moderno delle nuove composizioni. Bene: per quanto paradossale possa apparire, Phlegethon è anche l’album nel quale i Kingcrow si rivolgono con maggiore forza e ostinazione ai seventies, esplorandoli in larghezza e in profondità. Gli esempi si sprecano. La multiforme ‘Fading Out pt. III’ nasconde fra sinfonie e arabeschi spagnoleggianti un delizioso break di cori e contrappunti in perfetto stile Gentle Giant, mentre ‘Island’ si affida ai Jethro Tull 77-79 per immortalare un ritornello che si ripropone tre volte con tre arrangiamenti diversi (!). Nel titano ‘Numb’ la sintesi di vecchio e nuovo tocca le sue vette più elevate: introduzione (ci mancherebbe) pinkfloydiana che lascia il passo a una progressione di scuola Gildenlöw-dei-bei-tempi, poi improvvisa sfuriata thrashy spaccata in due da un gioco di prestigio alle sei corde che più frippiano non si può: il vecchio zio Kai direbbe «insanity and genius». Nei suoi spiazzanti cambi d’umore, Numb rappresenta senz’altro uno dei due pilastri di Phlegethon. L’altro è la title-track: un mostro superbo, vorace, dalle molte teste. I primi minuti sviluppano una trama cupa e oscura, che si sublima in un una nuova catena di cori e contrappunti, gagliardi e maestosi, da far invidia a Jon Oliva. Poi tutto cambia, e la sfrontatezza dello stacco funky a seguire sortisce l’effetto inatteso di magnificare l’epos drammatico di riff, chorus e assolo, in un’apoteosi tanto più intensa quanto più disomogenei appaiono i suoi gradini – diciamocelo: sono queste le cose belle del prog. Alle fine dei giochi il cronometro non tocca i dieci primi, ma la cifra di idee compilerebbe un buon bignami del progressive moderno.
Fino a oggi i Kingcrow avevano battuto un terreno fuori dal loro tempo, maturando uno stile mutevole di album in album, ma dalle radici forti, a cavallo fra metal classico e progressive. Questa maturazione, giunta a compimento in ‘Timetropia’, è stata portata a un nuovo livello con Phlegethon. Phlegethon rappresenta insieme un incontro e uno scontro con il presente, una dissezione di ciò che è considerato moderno tale da rivelarne gli indissolubili legami con ciò che è considerato passato, un gioco alchemico la cui singolarità sta nella ricetta piuttosto che negli ingradienti, in ultima analisi il manifesto di una fra le più credibili interpretazione del progressive metal al 2010.
Una piccola provocazione in chiusura. Oggidì come quarant’anni fa si sente ancora ripetere che la proposta musicale italiana non sarebbe all’altezza del mercato estero: baggianate. Solo nell’ultimo anno solare e solo in ambito prog metal lo Stivale ha calciato fuori dischi di spessore internazionale a firma Moongarden, Pathosray, Mind Key, Sinestesia, in barba a chi solleva il naso soltanto per abboccare svogliato all’esca insipida dei soliti noti. Come il nuovo Kingcrow ribadisce, il progressive tricolore non ha nulla – ma proprio nulla – da invidiare alla scena statunitense, scandinava, britannica o mitteleuropea. Basta fermarsi, e ascoltare.
Riccardo Angelini
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Tracklist:
1. The Slide
2. Timeshift Box
3. Islands
4. The Great Silence
5. Lullaby For an Innocent
6. Evasion
7. Numb (incipit,climax & coda)
8. Washing out memories
9. A new life
10. Lovocaine
11. Fading Out Pt. III
12. Phlegethon