Recensione: Phlegeton
Secondo full-length della corazzata italiana che risponde al nome di Devangelic. Dopo il debutto avvenuto nel 2014 con “Resurrection Denied”, è difatti il turno di “Phlegethon”.
Tre anni non sono trascorsi invano, poiché il quintetto di Roma ha nel frattempo affinato la propria capacità esecutiva portandola a dei livelli straordinari. Nulla a che invidiare alle migliori band di brutal death metal internazionali, insomma, soprattutto statunitensi.
Brutal death metal, allora. Iper-tecnico, claustrofobico, aggrovigliato sulla mostruosa struttura di suono che accumuna a sé le dieci song del platter. Dieci bestiali mazzate sulla schiena, che demolirebbero anche la spina dorsale di un elefante. L’incessante lavorio della chitarra di Mario Di Giambattista non lascia respirare, talmente è compatto e massiccio il riffing a sostegno di un sound estremo, senza compromessi. Circostanza dovuta anche al claustrofobico drumming di Marco Coghe, autore di sequenze di blast-beats senza tregua, che non lasciano il tempo di respirare. Respira, invece, il vocalist Paolo Chiti, che spinge il suo stentoreo inhale verso i limiti dell’intelligibilità. Impossibile, cioè, comprendere le parole. Caratteristica tipica delle forme di inhale più suiniche, ortodosse, nelle quali la leggibilità delle frasi è sacrificata al suono dei vocalizzi.
In queste condizioni di estremismo assoluto, va da sé che è molto difficile riuscire a percepire la differenza sostanziale fra una song e l’altra. I Devangelic, seppure parzialmente, riflettono questa peculiarità che, beninteso, si tratta proprio di un tratto somatico pesante del brutal death metal e non di una scadente prestazione da parte della formazione che lo pratica. La soluzione è nel mood, cupo e oscuro, come dimostra l’intermezzo ambient ‘Wretched Incantations’ nonché la parte finale di ‘Of Maggots and Disease’, ideali nel raffigurare un ambiente malsano, putrescente, in cui si odono i disgustosi suoni della fauna cadaverica.
Va da sé che iterando gli ascolti le canzoni tendono, seppure lentamente, ad assumere una fisionomia propria, un’anima ben precisa, sebbene l’intricato muraglione di suono di cui sopra è e rimane un baluardo inamovibile di un sound perfettamente formato, associabile in maniera abbastanza univoca al combo romano. Sound che non rinuncia a essere il più corpulento possibile, anche quando il ritmo cala un po’ dai sempiterni blast-beats.
Abbastanza, poiché qualcosina manca, o perlomeno non è percepibile con facilità: quel qualcosa in più che renda unico il suono dei Nostri. Il livello tecnico è al massimo assoluto, quello artistico più che discreto; manca un pizzico di personalità in più.
Solo per intenditori, comunque sia: i Devangelic e “Phlegeton” sono troppo esagerati per poter essere compresi da tutti.
Daniele “dani66” D’Adamo