Recensione: Phoenix
I Kenziner sono un combo finlandese attiva fin dagli anni ‘90 il cui deus ex machina è il chitarrista di scuola neoclassica Jarno Keskinen. La sua attitudine, ispirata da virtuosi dello strumento, quali Timo Tolkki, è già stata apprezzata in passato in dischi come Timescape (1998), The Prophecies (1999) e, 15 anni dopo, in The Last Horizon (2014). Dopo sei anni e con una formazione rinnovata dagli ingressi della voce di Peter “Zinny” Zalesky e della tastiera di Ariel Perchuk, vede la luce il nuovo capitolo Phoenix.
Sulla cover del disco campeggia, in primo piano, una sorta di Horus vitruviano, inscritto in un triangolo equilatero, a preannunciare che la tematica prevalente dell’opera sarà il mito dell’antico Egitto, topos peraltro molto caro e trattato a più riprese da varie metal band. E, sotto il vigile occhio di Horus (che, secondo la mitologia, tutto vede ed è propiziatore della rinascita), si libra la fenice scandinava con, al seguito, 10 composizioni nuove di zecca.
“Eye of Horus” è un up-tempo che si sostiene su una sequenza di riff arabeggianti: sono loro a conferire al pezzo il tipico mood power – mediorientale che ha fatto la fortuna del genere nel periodo fine anni ‘90 – inizio nuovo millennio (vedi Stratovarius). “Listen to the Devil” parte lancia in resta e, come da miglior tradizione power, si snoda attraverso vere e prove di forza di chitarra e di tastiera che serpeggiano in tutta la composizione. Anche in “Shadow of the Moon” i giri del motore restano alti: i ripetuti innesti di chitarra e synth – clavicembalo sono precisi e forzano la ritmica in più punti. La voce pare più ispirata nelle linee vocali, con il risultato di lasciare all’ascoltatore un ricordo nitido della canzone. “Tears of Destiny” si apre con una serie di incastri di batteria che accompagnano una sequenza si start – stop riff di chitarra. Una tastiera dall’inconfondibile sonorità di fine anni ‘90 (presente peraltro all’epoca anche in certe produzioni di symphonic-black metal) introduce il tappeto armonico su cui si staglia la voce.
In “The Mirror” l’apertura è del consueto connubio chitarra & tastiera, che si ripropone per buona parte della traccia e non viene meno anche nella parte solistica. La sezione ritmica conferisce solidità e spessore al pezzo. “Osiris Rising” principia con un riff di stampo Iron Maiden, ma vira subito su un’atmosfera mediorientale. Il chorus (One resurrected! / Judge in the rule of underworld, / Pharaoh elected! / Becomes the universal god!) è accattivante ed efficace, forse anche perché, grazie ai bpm più limitati, può svilupparsi in tutta la sua potenza. Sicuramente uno dei momenti più alti dell’intero disco. In “Curse of the Pharaoh” la tastiera ripercorre le sonorità symphonic già menzionate; la tematica del testo, neanche a dirlo, è sempre incentrata su vicende appartenenti alla cosmogonia egizia. Alcune parti vocali sono parlate. Il pezzo però non sfonda come il precedente e tende a rimanere più anonimo. A livello strumentale “To Hell and Back” non si discosta parecchio dai precedenti episodi, ma il lavoro della voce è di nuovo convincente e gli ottimi pre-chorus e chorus scansano il rischio della noia. La sensazione è di un’atmosfera più fedele ai dettami heavy metal d’antan piuttosto che power metal.
“Phoenix Rising” (da non confondere con il capolavoro di Set The World on Fire degli Annihilator) presenta un ritmo più pacato e la tipica struttura armonica ricorrente nel genere e finisce per incanalarsi nel solco delle composizioni mediane del disco. È un peccato perché il riff iniziale di tastiera è tutt’altro che disprezzabile. E si chiude con “The Miracle” (i Queen non c’entrano), la clean ballad dell’album: la voce si fa più intima, rivelando sfumature molto interessanti. La chitarra interviene prima con passaggi in stile flamenco e, successivamente, con una pentatonica minore che dipinge un po’ di blues su un pezzo di stampo più meditativo e raccolto.
Per tirare le somme, si può dire che l’opera dei finlandesi presenta indubbiamente diversi punti di forza: è composta ed eseguita in modo preciso e a tratti virtuosistico da musicisti preparati e mai incerti (ottima l’estensione vocale del singer polacco “Zinny” Zalesky). Ciò che andrebbe limato è invece il songwriting e il tema delle lyrics, in favore di un approccio più personale e meno derivativo. Cosa non semplice, dato lo scarso spazio di manovra consentito da un genere il cui filone è stato ampiamente sfruttato negli anni d’oro da vere e proprie orde di band assurte più o meno agli onori delle cronache (tra l’altro, molte delle stesse leggende neoclassiche si trascinano in modo stanco album dopo album, in una sorta di eterna ripetizione di sé). Dal canto suo, Phoenix potrebbe essere tranquillamente annoverato tra i dischi del 2000, con tutti i pro e i contro del caso: un tuffo nel passato o una minestra riscaldata? Sicuramente i Kenziner meritano il dovuto rispetto ma la domanda – che mutuiamo dall’antichità – è “Ci si può bagnare due volte nella stessa acqua?”. Agli appassionati più duri e puri del neoclassical power la risposta.