Recensione: Pictures At An Exhibition
1873, Russia: nei sobborghi di Mosca muore all’età di 39 Viktor Alexandrovich Hartmann, illustratore e architetto russo. L’anno seguente l’Accademia delle Belle Arti di San Pietroburgo organizza in suo onore una mostra commemorativa in cui sono esposte più di 400 delle sue opere. Fra i visitatori compare anche Modest Petrovich Mussorgsky, compositore e amico del defunto Viktor. La mostra non mancherà di suggestionare la sua sensibilità di artista; così, nel 1874, Mussorgsky darà alla luce una suite per pianoforte in dieci movimenti (e cinque intermezzi) dedicata a Viktor Hartmann e ispirata alle illustrazioni della galleria d’arte. Il titolo della composizione è ‘Quadri a un’esposizione’ – Pictures At An Exhibition.
1970, Inghilterra: il progressive rock è nel pieno del suo fulgore quando tre delle personalità più importanti del settore – Keith Emerson (26 anni), Greg Lake (22) e Carl Palmer (20) – decidono di rendere omaggio a una delle opere cardinali della storia della musica classica. A modo loro, naturalmente.
‘Pictures At An Exhibition’ viene registrato dal vivo nella City Hall di Newcastle il 26 marzo 1971. Uscirà in Inghilterra a novembre dello stesso anno, a soli quattro mesi di distanza da ‘Tarkus’, entrerà in classifica in terza posizione e sarà disco d’oro e di platino. Dall’altra parte dell’Oceano però la Atlantic è scettica: solo quando si accorge che in meno di un mese sono state vendute negli Stati Uniti 50.000 costosissime copie d’importazione si deciderà per una pubblicazione domestica. L’album, uscito negli States il 4 gennaio 1972, raggiungerà la decima posizione nella Billboard Top 100: un risultato senza precedenti per un pezzo di musica classica. Erano proprio altri tempi.
Il successo, a essere onesti, non giunse del tutto inaspettato. Fin dalle sue prime esecuzioni, ‘Pictures…’ non mancò di suscitare reazioni entusiastiche. Durante il loro secondo concerto, all’Isle of Wight festival del 1970, Emerson Lake & Palmer dividevano il palco con titani del rock come Jimi Hendrix, i Doors e gli Who. Ma fu proprio la loro esibizione lasciare il segno più profondo, con un finale – letteralmente – esplosivo. Com’è noto, in quell’occasione arrivarono persino a portare sul palco due pezzi di artiglieria pesante. I cannoni furono innescati rispettivamente da Emerson e Lake, subito dopo la fine del brano; la duplice deflagrazione, oltre a catapultare un fotografo troppo curioso giù nel pit, divenne il simbolo dell’impatto senza pari che ‘Pictures’ avrebbe avuto sulla storia del progressive. Il messaggio fu subito chiaro – questo album è dinamite.
“We’re gonna give ya Pictures At An Exhibition”
Promenade. Il boato che accoglie l’annuncio di Keith Emerson basta da solo a rendere l’aria elettrica. Poi parla l’organo, e tutto tace. La storia della musica entra nella Newcastle City Hall sulle note della prima “passeggiata”.
The Gnome. Mussorgsky chiama, Palmer risponde. I tortuosi sentieri ritmici del brano originale sono il campo di battaglia ideale per esibire il potenziale bellico dell’appena ventunenne tamburino inglese. Da due minuti e mezzo che era, “Lo gnomo” si gonfia fino a superare i quattro primi;
la sua aria dispettosa e grottesca incontra l’irriverente Moog di Emerson. Subito un tocco di follia a contaminare gli immacolati spartiti classici.
Promenade. La poetica di Lake prende possesso del secondo intermezzo; non è più l’organo ma la voce a ripercorrere il tema principale dell’opera. Chi pensa che l’innovazione sia già troppo ardita non ha ancora sentito nulla.
The Sage. Questo non c’era. Lake spezza per la prima volta la trama di Mussorgsky con un pezzo scritto interamente di proprio pugno, ma distinguerle le due penne è dura per tutti: il passaggio è fluido, naturale, quasi che fosse già previsto fin dall’inizio nell’opera originale. C’è di nuovo la voce, ma soprattutto c’è la chitarra – acustica, e il solo di Lake è di quelli che restano nella storia. Il pubblico non può rimanere indifferente, e per la prima volta osa commentare la musica con un fragoroso applauso.
“You and I are yesterday’s answers;
The earth of the past came to flesh,
Eroded by Time’s rivers
To the shapes we now possess.”
The Old Castle. Emerson intanto è impazzito. Gli tremano le mani, non vede l’ora che tocchi di nuovo a lui. Armato del solo Moog, prende d’assalto il Vecchio Castello, in meno di un minuto lo espugna, lo mette a ferro e fuoco, lo saccheggia. Quella che doveva essere una melanconica ode d’amore fra le sue grinfie si trasforma nel delirio di un visionario. Poi arrivano i suoi degni compari, e il manicomio torna al completo.
Blues Variations. Fuochi d’artificio. Nella galleria d’arte irrompe di nuovo il genio dei tre inglesi. Questa volta il brano è composto a sei mani, ma a condurre l’assalto sono sempre le tastiere di Emerson, scatenato in una vera e propria jam session, frenetica, folle, scoppiettante. Esagera, come al solito, ma – che diamine! – questo è pur sempre progressive rock. E il pubblico lo sa: infatti non resiste, e non può fare a meno di porre il sigillo sulla prima parte del concerto con un nuovo, scrosciante applauso.
Promenade. Terza e ultima passeggiata per tornare a Mussorgsky. Emerson rientra nei ranghi; ristabilita la disciplina il tema principale dell’opera può aprire nuovamente i giochi, in attesa del climax finale.
The Hut Of Baba Yaga. La voce ce la mettono sempre loro, ma qui è ancora Mussorgsky che parla. Inquietante, convulsa, persino indiavolata: nella Tana di Baba Yaga gli strumenti volano all’unisono rinunciando a porre mano agli spartiti originali. Resta l’atmosfera del vecchio pianoforte, ma c’è qualcosa di più. Lo chiamano rock n’ roll.
The Course Of Baba Yaga. E poi tocca di nuovo a loro. Sfido chiunque a capire dove finisce Mussorgsky e dove comincia il delirio. Il pubblico applaude, il basso di Lake se la ride, Emerson si unisce alla festa mentre Palmer porta il corteo alla travolgente strofa cantata, che manda tutti gambe all’aria. Se non fosse che ufficialmente nessuno lo ha ancora inventato, qualcuno potrebbe chiamarlo “heavy metal”. Ma non ci sono regole, solo una carneficina in musica: basso e batteria scandiscono ritmiche imprendibili mentre le tastiere alternano accessi di follia aliena a sprazzi di lucidità melodica. Mussorgsky intanto è tornato, anche se non ce ne siamo accorti. È uno dei momenti in senso stretto più spettacolari ed emozionanti della serata, uno di quei momenti che rendono giustizia a chi ha preteso di inventare la parola “geniale”.
The Great Gate Of Kiev. È il gran finale. Quando Lake canta “Come forth, from love spire/born in life’s fire/born in life’s fire” è chiaro a tutti che qui si sta facendo la storia della musica. Maestoso, solenne, sofferto: in queste note c’è lo spirito di un popolo intero – il popolo russo. L’esuberanza di Emerson non rinuncia a prentedere il suo pur breve tributo rumoristico, ma poi è Mussorgsky a tornare in cattedra, riprendendo parola per mezzo dell’ugola di Lake per chiudere definitivamente la galleria d’arte musicale. Il pubblico non manca di far sentire il proprio gradimento. È stata una bella passeggiata.
“Want some more music?”
Non c’era nemmeno bisogno di chiederlo: come in ogni concerto che si rispetti non si va a casa senza il bis, gentilmente offerto dal celebre ‘Nutrocker’ di Kim Fowley – liberamente ispirato dello schiaccianoci di Tchaikovsky. Un’esecuzione bruciante, che lascia senza fiato il povero spettatore che ancora deve riprendersi dall’emozione dello spettacolo appena concluso. Rock, classica, rock. E ancora applausi. Ecco, ora è finita sul serio.
Molti sono stati i musicisti che nel tempo hanno offerto una propria interpretazione dell’opera di Mussorgsky. La più celebre è quella di Ravel, che ne trasse una una versione per orchestra sinfonica oramai questi più nota della originale composizione per pianoforte. Altri prima e dopo di lui si sono misurati con alterne fortune con questo classico fra i classici – Horowitz, Richter, Campanella… – ma nessuno suscitò tanto clamore quanto quel sacrilego gruppo rock che osò porre la sua mano impura sugli spartiti del mostro sacro della tradizione classica russa. Chissà cosa ne avrebbe detto Mussorgsky, convinto tradizionalista e feroce antagonista della scuola musicale occidentale. Se già non gradì la prima rivisitazione orchestrale di Rimsky-Korsakov, c’è solo da immaginare che cosa avrebbe potuto pensare di un matrimonio con la più occidentale fra le correnti musicali, il rock. Forse se lo sono chiesti anche Keith, Greg e Carl: ma non per questo hanno esitato. Oggi, a quattro decadi di distanza da quel gesto blasfemo, possiamo finalmente dire cha hanno avuto ragione loro. Quel giorno di marzo del 1971 l’alleanza fra musica classica e rock progressive è diventata più salda. Del resto, come già affermò una volta lo stesso Keith Emerson non senza una punta di orgoglio, questo brano era importante quando fu scritto, era importante quando fu adattato per il mondo del rock nel 1970 e, quando sarà eseguito da qualcun altro fra 100 anni da oggi, sarà ancora altrettanto importante.
Questo, signori, è ‘Pictures At An Exhibition’; questo è IL live album del progressive rock. Questa è Storia.
“There’s no end to my life,
no beginning to my death
Death is life.”
Riccardo Angelini
Tracklist:
1. Promenade (Emerson, Mussorgsky)
2. The Gnome (Mussorgsky, Palmer)
3. Promenade (Lake, Mussorgsky)
4. The Sage (Lake)
5. The Old Castle (Emerson, Mussorgsky)
6. Blues Variation (Emerson, Lake, Palmer)
7. Promenade (Mussorgsky)
8. The Hut of Baba Yaga (Mussorgsky)
9. The Curse of Baba Yaga (Emerson, Lake, Palmer)
10. The Hut of Baba Yaga (Mussorgsky)
11. The Great Gates of Kiev (Lake, Mussorgsky)
12. Nutrocker (Tchaikovsky, Fowley)
THE END