Recensione: Pinewood Smile
I britannici The Darkness, fondati dai fratelli Hawkins (Justin alla chitarra e voce e Daniel alla seconda chitarra), piombarono sulla scena hard rock nel 2003 come un meteorite variopinto, un’esplosione colorata e goliardica che lasciò subito il segno. Stretti nelle loro tutine attillate, tra glitter e luccichii sfavillanti, raggiunsero in men che non si dica il successo planetario grazie al singolo (e relativo video sopra le righe) “I Believe In A Think Call Love”, e ce li ritrovammo praticamente ovunque: alta rotazione su MTV e su ogni radio possibile, comprese quelle che non trattavano di rock, milioni di copie vendute, tour mondiali, incetta di premi e cotillion. I nuovi Queen dicevano di loro… accostamento blasfemo, ma qualcosa c’era a riportare certe atmosfere e un certo sound (per quanto i Queen resteranno sempre un paragone improponibile per chiunque) insieme al falsetto dell’istrione Justin, un frontman funambolico tanto sfrontato quanto calamitante.
Poi la band ha bruciato le tappe, in tutti i sensi. Un secondo album che bissa il successo dell’esordio, l’abbandono del fratellino Daniel, la riabilitazione di un Justin già perso nella prematura via della dissoluzione, lo scioglimento e la rinascita a stretto giro sotto un nuovo nome (Stone Gods), lo stesso Justin Hawkins che si ripresenta con i suoi Hot Leg… Fino alla chiacchierata reunion (nemmeno parlassimo di una band con decadi di carriera alle spalle) con il ricongiungimento dei due fratellini, un nuovo valzer di entrate e uscite dalla band, e nuovi tour (tra cui uno in apertura a Lady Gaga).
Dopo il recente tour mondiale a supporto dei Guns ‘N’Roses, i The Darkness presentano il nuovo “Pinewood Smile”, loro quinto album uscito il 6 ottobre, il primo con la presenza in line up di Rufus Tiger Taylor alla batteria, nientemeno che il figlio di Roger Taylor dei Queen (et voilà, il cerchio si chiude). E “Pinewood Smile” riporta il loro inconfondibile stile hard rock anni ’70 ispirato a mostri sacri come AC/DC, Led Zeppelin, Van Halen, e appunto Queen, come dimostra il primo singolo “All The Pretty Girls”, che racconta, in modo anche autobiografico, la vita di una rock-star, tra momenti di gloria, bagni di folla e ragazze disposte a tutto pur di avvicinarsi alle celebrities.
“All the pretty girls, like me for who I am / All the pretty girls, when the record goes platinum / Plenty of action, massive attraction, when you’re selling out stadiums / All the pretty girls… and their mums” canta Justin Hawkins. E il pezzo, con quel riff alla “Out Ta Get Me” (magari i Guns hanno lasciato un rimasuglio di influenza nel songwriting degli inglesini) e Justin che abbaia, risulta accattivante e trascina in maniera sbarazzina e divertente. Eh sì, sono sempre i soliti simpatici caciaroni, ma…
Quello che forse era sfuggito ai più, nella baraonda folle del mainstream, è che i The Darkness sanno comporre davvero ottime canzoni hard rock, che oltre al falsetto c’è di più in Justin Hawkins, per esempio un’interpretazione sempre convincente e le sue capacità alla sei corde. Belle le armonizzazione a due chitarre sulla simpatica “Buccaneers Of Hispaniola” dove il frontman si diverte a inserire i suoi strambi vocalizzi, come fatto un paio d’anni or sono in “Barbarian”.
Il riff portante di “Solid Gold” è 100% AC/DC, così come il suo coro, mentre “Southern Trains” tiene fede al titolo e parte sparata con un refrain fatto di gang vocals volutamente volgari e un assolo travolgente. Il tutto infilando qui e là sempre qualche richiamo alla “Regina” Mercury (e a tal proposito il giovane Rufus non si fa dispiacere dietro le pelli). “Japanese Prisoner Of Love”, per esempio: se chiudete gli occhi sarete immersi nel periodo “Miracle”. Il tocco della chitarra, il ritornello immaginifico intonato da Justin, il labirinto dei cori… non manca niente in quello che è un rifacimento-omaggio allo stile di una band leggendaria.
Ne troviamo tanti altri durante l’ascolto delle dieci tracce di “Pinewood Smile”, tutta “Lay Down With Me, Barbara”, ma anche la scanzonata “I Wish I Was In Heaven” (ascoltare il coretto finale). Sono una band derivativa fino al midollo che non fa nulla per nasconderlo, ma in fin dei conti l’importante è il risultato finale, e quello funziona.
“Pinewood Smile” intrattiene e suona dannatamente bene, se quello che si ricerca è un hard rock scintillante e positivo. Lasciarsi con “Stampede Of Love” che sa tanto di Beatles (al limite del plagio) con nel mezzo l’ennesima iniezione di rock anni ‘80 e una coda schizoide, è il modo migliore di concludere l’ascolto con un sorriso. Ma è un titolo come “Happiness” quasi in chiusura che sta lì a ribadire il concetto di rock positivo, forse anche come un mantra per gli stessi The Darkness che ne hanno passate troppe, inghiottiti da un meccanismo, quello del successo, da loro stessi cercato e voluto con ogni mezzo.