Recensione: Planeshift (Reissue)
La Earache, anzi, per la precisione la Elitist, si è data anche alla ristampa di questo Planeshift, uscito originariamente per la nostrana Code666, etichetta di grande qualità. Era il 2000, e piovvero grandi parole su questo lavoro, giudicato da molti come una vera e propria perla; tuttavia ricordo anche chi lo considerò alla stregua delle tante uscite Gothic (scusate se sono un po’ riduttivo…) che da anni affollano il mercato. Il tutto, nel dare un giudizio a questo album, sta nel valutare se sia effettivamente innovativo o no; cosa non di poco conto, visto che questo genere mette a disposizione infinite strade, ma che sono state percorse da così tante “intrepide” bands che oggi è realmente difficile emergere dal mucchio.
Sulla qualità e la scelta dei suoni sarò molto breve: praticamente impeccabile. Non sempre le chitarre si fondono bene col resto, però quello che emerge in alcuni episodi come “Fear Wasn’t In The Design” è un contrasto che mi ha ricordato un po’ i Cruachan di “Tuan Na Gael”. Il resto è a mio avviso una questione essenzialmente di feeling: non parlatemi per piacere di sperimentazione, perchè definire questo un album sperimentale vuol dire avere un senso molto ristretto del termine. Ciò non toglie che con mezzi classici si possa riuscire in intenti originali. E mi rincresce dover dire che i Rakoth in parte hanno centrato il bersaglio, in parte no. Mi rincresce non tanto per il valore dell’album, che reputo comunque buono, ma perchè non vorrei sembrare il classico recensore che non si sbilancia… In realtà è l’album stesso a rimanere una sorta di “nè carne nè pesce”.
Guardatevi dal giudicare le mie parole una critica al valore dell’album: quello che voglio dire è che secondo me la scelta dei Rakoth è mancata di quel coraggio che avrebbe portato il lavoro a divenire un must del genere. Nelle parti più atmosferiche, quelle in cui a trapelare è una profonda angoscia, la band si rivela insuperabile: un uso equilibrato e straordinariamente intelligente di suoni e vocals, mai esageratamente impastati nè accalcati l’uno sull’altro, fanno sì che il suono appaia letteralmente delicato. Pezzi come “The Dark Heart Of Uurkrul” possiedono in sè un potere evocativo eccezionale, che però si disperde quando la band decide di seguire ciecamente i canoni stabiliti dai predecessori: così nelle parti più tirate manca del tutto originalità. A volte si sfiorano richiami ad un neo-classicismo tanto pacchiano quanto indebolente, al punto che questi estratti sembrano provenire direttamente da un altro album…
Mi rincresce il non aver avuto ancora modo di ascoltare il loro successivo lavoro, quello che so è che Planeshift è un ottimo punto di partenza per un futuro da numero uno; il limite dei Rakoth è quello di tante altre band, ma le potenzialità no di certo. Per quello che mi riguarda un altro album sulla scia di questo vorrebbe dire accontentarsi, il che sarebbe un vero e proprio spreco. Per il momento vi dico che se siete alla ricerca di album che sappiano trasportarvi in mondi diversi, che sappiano accendere fantasia e immaginazione, questo è quello che cercavate.
Matteo Bovio