Recensione: Planet Muscaria
Allucinazioni, come quelle prodotte dall’ingestione dell’Amanita muscaria. Allucinazioni, veicoli per la transizione negli stati più rarefatti dell’esistenza, ove le spaventose deformazioni della realtà lasciano intravedere Mondi alieni, sconosciuti, perduti nello Spazio e nel Tempo.
Su questa particolare sensibilità indotta dall’uso di sostanze psicotrope, dagli effetti pure letali, basano il loro concetto musicale i portoghesi Angrenost. Formato attualmente da un trio comprendente Pursan (voce), E. (chitarra) ed Erdsaf (basso e batteria), il combo nasce come duo nel lontano 1995 per mano dello stesso Pursan e di Ainvar. Un solo demo-EP nel 1997, “Evil”, e l’entità sparisce nel nulla nel 1998 per riattivarsi dal vuoto dello spazio interstellare dodici anni dopo, nel 2010. Per lavorare alacremente sull’Opera Prima, finalmente disponibile quest’anno per la code666: “Planet Muscaria”.
Ma l’intreccio fra i due concetti distinti ‘Agrenost’ e ‘Planet Muscaria’ va oltre la dimensione delle sette note. L’aggrovigliarsi degli eventi tratta, infatti, della cruda testimonianza di chi, in modo scellerato, ha valicato ogni limite psicofisico umano usando e abusando di droghe pesanti e allucinogeni vari; sopravvivendo alla sequenza di ricoveri coatti e arresti carcerari per raccontare la sua misera, oscura, deprimente condizione autodistruttiva.
Per sottolineare la forza di questa filosofia, gli Agrenost scatenano un black metal brutale, violentissimo, asfissiante. Che, malgrado i pesantissimi e intrusivi inserti ambient nonché intere song strumentali che potrebbero fare da colonna sonora a film di fanta-horror (“INferN(O)”, “)O(NrefNI”), trae origine dagli archetipi-base del black medesimo. Per intendersi, quello suonato con il sudore della fronte, senza basi precotte e drum-machine, generato dal mugghiare delle dita sulle corde del basso, dalle callose bacchettate sui tamburi, dai vortici di riff continui ben discernibili nella massa sonora e, soprattutto, dallo strazio palpabile di un’ugola soffiata dal dolore infinito.
Soprattutto nell’ipnotica, allucinata “acIdShIVa”, bombardamento alieno a base di accelerazioni, rallentamenti, sfuriate di blast-beats, cambi tempo, si percepisce la vicinanza agli Emperor degli esordi; per via di quelle magiche orchestrazioni che, lacerate dalla foga rabbiosa della strumentazione… manuale, donano al sound degli Agrenost l’incredibile aurea visionaria che, come un teletrasporto, proietta la mente nei più reconditi anfratti del Cosmo. Certo, i campionamenti di tipo industrial sono anche parecchi, ma hanno il solo compito di modernizzare un suono che, altrimenti, saprebbe un po’ di ‘trito e ritrito’. Del resto, l’alienazione dalle scarne e crude vicende della vita di tutti i giorni, cui il terzetto di Viana Do Castelo pone come pietra miliare della propria costruzione retta da geometrie non euclidee, trova mezzi fenomenali in brani come “INTraVeNUS”; vere e proprie navicelle per trasportare il pensiero verso gli universi atomici che, in numero infinito, assemblano il corpo umano. Universi in cui, nel più fitto buio interelettronico, si trova, finalmente, la condizione più abietta dello stato dell’esistenza; obiettivo di non-vita del protagonista di “Planet Muscaria” più su citato.
Gli agghiaccianti incipit cyber vengono poi spesso utilizzati per preparare l’assalto fonico del terzetto, al massimo delle sue possibilità velocistiche come nella devastante “SaTaNlOgOS”. Proprio in tali occasioni si percepisce appieno la manualità di Pursan, E. ed Erdsaf nel manovrare corde vocali e asce. Seppur i BPM lievitino molte volte sino alla follia dei blast-beats, il suono non perde mai di profondità e potenza, diventando addirittura massiccio nei segmenti in cui Erdsaf propone i suoi energici mid-tempo. Le fulminee accelerazioni, accompagnate dalle tastiere per curvare la retta dello spazio-tempo, sono gli attimi in cui gli Agrenost riescono davvero a determinare, in chi ascolta, un livello di estraniamento dalla realtà paragonabile all’effetto di una qualsiasi sostanza psicotropa. Esattamente come i tre derivati dell’isoxazolo presenti in abbondanza nell’Amanita muscaria: acido ibotenico, muscimolo e muscazone. Nella stessa “SaTaNlOgOS”, poi, il black si fa a volte raw, aumentando il suo carico dissonante grazie a riff che, almeno a chi scrive, ricordano quelli dei Voivod.
C’è anche da mettere in evidenza che brani interamente ambient come “ScOrpIOSaUrUS” non sono stati messi lì per ingrossare la durata (considerevole: un’ora e tre minuti) del CD. Al contrario, è come se contribuissero a originare la catalessi da sovraccarico neuronale, indispensabile per accordarsi all’organismo ‘Agrenost’. L’occlusione in questa condizione coatta è la chiave affinché le narrazioni di Pursan prendano il sopravvento su ogni resistenza mentale: “abSUMardUk”, con le sue sterminate superfici disegnate dalle tastiere, i suoi toni drammatici, i suoi up/mid-tempo, le sue repentine accelerazioni astrali (di nuovo, Emperor…), identifica e materializza il maelström musicale la cui attrazione, infine, è irresistibile. E, una volta che l’orrido gorgo ha inghiottito tutto e tutti, non rimane che lo sfascio assoluto, la dissoluzione della volontà, l’abiezione terminale. Compito cui è deputata “SchIzOphObOS”, sostenuta dal tanto imponente quanto vario drumming di Erdsaf e dagli incantevoli disegni dei tappeti che le keyboards ordiscono con classe e gusto.
Chi asserisce che il black metal abbia fatto il suo tempo e che, pertanto, sia obbligatorio passare al post-black, o all’avantgarde, o all’eerie emotional music, oppure alla shoegaze, sbaglia. Non lo afferma chi scrive. Lo dicono gli Angrenost e il loro ‘stupefacente’ “Planet Muscaria”.
Daniele “dani66” D’Adamo
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