Recensione: Please Come Home
Chi bazzica il prog presto o tardi si imbatte nella figura di John Mitchell. Al di là dell’assonanza del nome con Joni Mitchell, il nostro è famoso per aver dato innumerevoli forme al suo ingegno, dagli Arena ai Kino, fino ai Frost*. Se gli Arena, un supergruppo che mette assieme diverse menti illustri dell’universo prog, sono il suo progetto più famoso, va detto che tutte le altre sue avventure, al di là dei monicker, hanno sempre avuto parecchi traits d’union. Anzitutto la sua voce, calda e modulata su linee decisamente standard in un genere in cui i singer tendono a prediligere toni acuti. Oltre a questo, un sound sempre solido e mai eccessivamente arzigogolato, composizioni brevi che raramente oltrepassano i dieci minuti. I vari gruppi, sorti come funghi nel corso degli anni, sono sempre stati piuttosto simili l’un l’altro, cosa che non ha comunque mai impedito di prediligere questo o quel progetto a tutti gli altri – io ad esempio attendo ancora un nuovo album dei Kino.
Ad ogni modo il nostro si propone in questo 2015 sotto una nuova veste, il cui nome è Lonely Robot, e con un nuovo album,daltitolo Please Come Home. Un progetto che, al di là delle collaborazioni illustri (sulla pagina della Inside Out troviamo Peter Cox, Nik Kershaw, Heather Findlay, Steve Hogarth, Jem Godfrey, Kim Seviour, Craig Blundell, Nick Beggs, e Lee Ingleby), nasce dall’esigenza di generare un’opera che sia finalmente, totalmente e completamente sua, dall’inizio alla fine.
Il che non vuole dire che si tratti di qualcosa di molto diverso dai due minigruppi citati in precedenza. E questo è un bene, dato che la musica qui contenuta si attesta sui canoni detti in precedenza, con una forte dose degli ultimi Porcupine tree. Un prog estremamente semplice ed orientato alla melodia che al contempo mantiene l’impronta molto personale caratteristica di Mitchell. Dieci tracce, tutte piuttosto simili e dal minutaggio contenuto che regalano un’ora di ottima musica. Difficile isolare i momenti migliori. Decisamente degna di nota è Lonely Robot, traccia più lunga e strutturata del lotto, che unisce un ottimo ritornello ad una parte centrale che svaria verso le sponde più psicotiche del genere.
A Godless Sea mette in luce un piano rarefatto e tastiere eteree, la conclusiva Human after All rappresenta il momento più toccante del disco, God vs Man o The Boy in the Radio risultano ancora meravigliosamente costruite che fanno di Please Come Home un disco senza riempitivi. Un disco di ottimo livello, dunque, il cui unico vero limite è quello di non sapere se sarà seguito nel futuro da altre prove.
In chiusura, assodata la qualità di Please come home, restano da porsi alcune domande di rito. La prima ovviamente è se questa nuova avventura di Mitchell avrà un seguito. La seconda, decisamente più metafisica, perché il britannico, invece di presentarsi ogni tre anni con un monicker diverso, non si limita ad incidere dischi a nome suo, in modo da dare una continuità omogenea alla sua arte, ma anche di aiutare noi a trovare un appiglio nella sua sin qui nominalmente eterogenea discografia. La risposta sta nella sua testa, e difficilmente riusciremo a saperla. Magari con Lonely Robot ci troviamo ad una svolta.