Recensione: Pleased To Eat You
Dopo aver battezzato il primo decennio degli anni 2000 alla rincorsa, pubblicando 4 album in meno di due lustri, i Nashville Pussy di Atltanta, Georgia (che dista 250 miglia dalla capitale del Tennessee, a meno che i nostri non intendano la Nashville in Georgia, ma dubito trattandosi di una cittadina di appena 5000 abitanti senza alcuna rilevanza da un punto di vista storiografico-musicale) hanno sensibilmente rallentato il ritmo pubblicando altri 3 dischi in 13 anni; “Pleased To Eat You” è l’ultimo in ordine di arrivo, caldo caldo sugli scaffali delle migliori rosticcerie e bettole per camionisti d’America. Ci sono stati un po’ di cambi di line-up che hanno visto i coniugi Cartwright/Suys fare da perno attorno alla girandola di avvicendamenti che hanno riguardato la sezione ritmica. Nulla di drammatico, anche perché si sa, i Pussy sono loro due, marito e moglie, il resto serve da contorno, per dare profondità, bassi e percussioni alle sudicissime storie ordite dalla coppia elettrico-alcolica da sempre alla guida della band. Un po’ come per gli AC/DC, inseriti di diritto tra i loro numi tutelari, nessuno si aspetta da un nuovo lavoro dei Nashville Pussy chissà quale esperimento avanguardista all’insegna della ricerca, della sperimentazione e della progressione sonora. I Pussy hanno un marchio, anzi sono un marchio, e sostanzialmente si tratta di portarlo avanti, mantenendo un buon livello e una qualità soddisfacente per chi si aspetta di sentire sempre il mdesimo buon sapore da un bicchierino di whiskey di quello buono, distillato con metodo e tradizione. Un sapore eternamente riconoscibile, familiare, non innovativo o stravolgente.
In carriera i nostri non hanno mai veramente deluso. Personalmente penso che dal 2002 il livello globalmente sia calato e che la band non si sia più ripetuta ai livelli dei fiammeggianti “Let The Eat Pussy“, “High As Hell” e “Say Something Nasty“, tuttavia il brand si è sempre difeso, mantenendo uno standard dignitoso, a tratti più accattivante, ora più di mestiere. Devo constatare che “Pleased To Eat You” si colloca a metà strada tra prima e seconda fase. Continua a non essere in grado di eguagliare le migliori prove del gruppo ma risolleva ulteriormente le sorti del loro sound, mettendo a segno diverse buone composizioni, rigorosamente all’insegna dell’integralismo rock ‘n’ roll dei Nashville Pussy, leggi: sesso, droga, ironia, profumo del sud degli Stati Uniti, svaccamento totale, diti medi alzati come se piovessero, decibel a manetta, varie ed eventuali. La formula è quella, rodatissima, direi cementificata, non si cambia e nessuno – come detto – nemmeno lo pretende, sarebbe come snaturare ciò che non deve essere snaturato. La dimensione regina della band è il palco e dunque anche i loro platter cercano il più possibile di mantenere una cornice live, ovvero immediatezza, semplicità, efficacia, cazzotti nei denti. Impressionante come la voce di Blaine Cartwright assomigli sempre di più a quella di Alice Cooper (altro padre putativo del loro gotha rock), tanto da far sembrare un pezzo (divertentissimo) come “Go Home And Die” una song dello zio Tibia a tutti gli effetti. Irresistibili la hony tonk “Hang Tight“, la coppia poliziotto cattivo (“We Want A War“) / poliziotto buono (“Endless Ride“), agguerritissimo anthem la prima, cavalvata più rilassata ma non per questo meno elettrica la seconda. Classicamente Pussy “One Bad Mother“, scorretta politicamente la tossica “CCKMP” (che sta per Cocaine Can’t Kill My Pain), fate caso al testo, roba che il PMRC di un tempo sarebbe esploso.
Tutto fila liscio in “Pleased To Eat You“, buon rock n roll sboccato, sessista e strafottente, alla maniera dei Nashville Pussy, dove il cantastorie ubriacone Cartwright sembra sempre sul punto di venderti la moglie per pochi dollari ed una bottiglia, e la Suys (micidiale negli assoli) te le butta in faccia da mane a sera, a patto di vedersi sganciare almeno un pacchetto di sigarette senza filtro. Country, blues, rock settantiano, Tina Turner, Ted Nugent, Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, Blackfoot, ZZ Top, Nazareth (coverizzati con “Woke Up This Morning“) e chi più ne ha più ne metta; è tutto un gran frullato che poi fondamentalmente si traduce in una scarica di riffoni iper amplificati che piallano tutto e vi riconciliano con la primordialità del rock più diretto, elementare e “in your face”. Tirate fuori il vecchio cofanetto impolverato dei dvd di Hazzard e sparate il volume dello stereo al massimo, il mondo può finire.
Marco Tripodi