Recensione: Poetry For The Poisoned
Sono passati ormai cinque anni da “The Black Halo” e dall’incredibile “When The Lights Are Down”, unanimemente considerata una delle più spettacolari canzoni scritte in ambito metal.
Un lustro passato alla vana ricerca di un erede, un successore che potesse – nuovamente – spalancare le porte del cuore. Finalmente, questo discendente è arrivato. Partorito dalle stesse menti che generarono l’incanto primigenio, “Hunter’s Season”, quinto brano di “Poetry For The Poisoned”, il nuovo album dei Kamelot, allunga idealmente la semiretta dell’eccellenza assoluta. Quella linea invano cercata dalle migliaia di band che solcano avanti e indietro i mari di metallo lucente, accecate dal riflesso del sole sulle vivaci onde fluttuanti. È vero che pochi possono vantare un vocalist come Roy Sætre “Khan” Khantatat, dotato di un timbro unico al Mondo, capace di arrampicarsi ovunque; tuttavia l’anima di una song è qualcosa d’indefinibile, un feeling invisibile, un’esplosione di colore e di calore. Cioè, la materializzazione della sublime arte di comporre assieme le note del pentagramma così da proiettare, per sempre, le armonie nelle più lontane costellazioni della memoria. Non solo sono rinverditi i fasti di un passato che sembrava irripetibile, dopo “Ghost Opera” ma, addirittura, questi vengono esaltati e ingigantiti dalla maestosa cadenza che schiaccia e dilata – come un immenso battito cardiaco – le palpitazioni che ravvivano “Poetry For The Poisoned”.
Il clamoroso impatto emotivo che possiede l’opera omnia del combo statunitense – perché di questa si tratta – è immediatamente sviscerato con l’opener “The Great Pandemonium”. Un breve incipit elettronico e via: la melodia si scatena in tutta la sua abissale profondità. Il timore che l’elettronica, appunto, potesse tarpare le ali a Khan si affloscia come un sacco vuoto (analogamente a quando accadde, in merito, ai Queensrÿche di “Rage For Order” del 1986): ponte e ritornello, arricchiti dal coro di Amanda Somerville, fanno letteralmente volare nella stratosfera; il break centrale, aulico, provoca la nascita di una lacrima che trova alimentazione nel solo di chitarra – meraviglioso – di Thomas Youngblood, il quale tira giù una fantastica «canzone nella canzone». “If Tomorrow Came”, e i cinque fanno comprendere con disarmante facilità che il loro sound non è composto unicamente dalla poesia. Riffing cattivo, ritmo possente e, di nuovo, un chorus di rara leggiadria che esplode dalle labbra di Khantatat; il tutto avvolto dalle magiche atmosfere da «Le Mille e una notte» cesellate dalle mani ispirate di Youngblood, in forma come non mai. I filtri vocali digitali la fanno da padrone nel breve intermezzo “Dear Editor”. Un’abile, artificiosa dissonanza per marcare il contrasto con la poderosa sinfonia di “The Zodiac”, dolce brano in cui la voce di Roy (accompagnata stavolta da Jon Oliva) dimostra tutto il suo spessore timbrico e tutta la sua arte interpretativa che, davvero, nasce dai moti più turbolenti e nascosti dell’anima. Lo stato di grazia del maestro d’ascia prosegue trasognante nell’introduzione di “Hunter’s Season”: un arabesco d’oro zecchino che, occorre nuovamente scriverlo a caratteri cubitali, dà il la a una delle più grandi canzoni di sempre. Da ascoltare infinite volte: non ci si stancherà mai!
La musica classica sinfonica, perfettamente integrata al power metal dei Nostri, è una costante del platter. Mai invasiva, nobilita le partiture di tutti i brani, conducendoli per mano verso vette d’inarrivabile lirismo. “House On A Hill”, cantata a due voci con la bravissima Simone Simons, è forse la Bibbia di questa peculiarità che rende inimitabile il groove che muove le composizioni del quintetto dell’assolata Florida.
Un down-tempo potente, picchiato sulle pelli con tutta forza da Casey Grillo e martoriato sulle corde spesse da Sean Tibbetts scuote l’etere: è il momento di “Necropolis”, dall’umore introverso come il titolo lascia immaginare. Kahn raggiunge le alte frequenze con naturalezza e decisione: anche per lui, sussiste lo stato di grazia! Sempre di altissimo livello tecnico/artistico il guitar-solo, acuto e penetrante come una lama d’acciaio che perfora una membrana. La forte visionarietà emessa dalle note concreta, con “My Train Of Thoughts”, l’immagine di un teatrino d’altri tempi; quando pizzi e merletti erano gli accessori di moda per il vestiario. Brividi caldi percorrono alla velocità della luce la pelle dell’auditorio quando – ancora! – Kahn raggiunge le stelle con il mirabile chorus della canzone. La sterminata sinfonia, che percorre le praterie di un vagheggiato aldilà, si scatena un’altra volta: è il turno di “Seal Of Woven Years”, impiantata su una deliziosa dissonanza, resa viva dallo smisurato talento del cantante norvegese, addolcita poi dalla vibrazione della chitarra solista. Si ritaglia quindi il proprio spazio Oliver Palotai, principale palo tutore per la title-track, suddivisa in quattro movimenti; ciascuno dotato di una propria, precisa personalità (“Incubus”, “So Long”, “All Is Over” e “Dissection”). Le emozioni si scatenano come un tornado di potenza straordinaria, alimentato da innumerevoli cristalli di note, cascate di fluidi metalli pesanti, raffiche di cori adamantini, soffi di sinfonie senza limiti. Sconvolgente, per forza sentimentale, l’interpretazione del duo Khantatat/Simons in “Poetry For The Poisoned Part II – So Long”, tatuata a perenne memoria sulla pelle del corpo. Assieme alla conclusiva “Once Upon A Time” ritorna l’impareggiabile sapore di “When The Lights Are Down”. Un altro «ritornello impossibile» squarcia l’aria oltrepassando il muro del suono, facendo ardere l’irrefrenabile voglia di ricominciare daccapo l’ascolto del disco.
Ultime due osservazioni. In primis, l’uso di effetti e campionamenti digitali non ha per nulla snaturato o intaccato la spessa stoffa musicale posseduta da Khan e compagni. L’elettronica, anzi, guarnisce il sound restando comunque in secondo piano sì da dare quel quid in più di modernità tale da far identificare il sound stesso come icona metal del terzo millennio. Secondo, il complesso ha raggiunto l’apice della maturità artistica: qualsiasi istante del full-length, preso a caso, ne rappresenta inequivocabilmente il marchio di fabbrica.
Quattordici canzoni, cinquantatré minuti di musica. Non c’è nemmeno un segmento infinitesimo di riempitivo, nemmeno un secondo di calo. La consistenza dei pezzi è invariabilmente inchiodata sulla massima densità possibile, la continuità stilistica non mostra alcun tentennamento. Ciascuna nota si lega alle altre per formare un corpo che non presenta alcun punto debole, neanche esplorandolo a tutto tondo percorrendo le incalcolabili linee circolari che compongono la sfera perfetta.
Kamelot.
Ci volevano quasi vent’anni di carriera per giungere al capolavoro.
Non avrei termini per descrivere, in una sola parola, “Poetry For The Poisoned”.
Daniele “dani66” D’Adamo
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Track-list:
1. The Great Pandemonium 4:22
2. If Tomorrow Came 3:55
3. Dear Editor 1:18
4. The Zodiac 4:00
5. Hunter’s Season 5:33
6. House On A Hill 4:15
7. Necropolis 4:17
8. My Train Of Thoughts 4:07
9. Seal Of Woven Years 5:11
10. Poetry For The Poisoned Part I – Incubus 2:56
11. Poetry For The Poisoned Part II – So Long 3:24
12. Poetry For The Poisoned Part III – All Is Over 1:03
13. Poetry For The Poisoned Part IV – Dissection 1:58
14. Once Upon A Time 3:46
Line-up:
Roy Sætre “Khan” Khantatat – Vocals
Thomas Youngblood – Guitars
Sean Tibbetts – Bass
Oliver Palotai – Keyboards
Casey Grillo – Drums
Guest members:
Simone Simons – Vocals on “House On A Hill” and “Poetry For The Poisoned”
Björn “Speed” Strid – Vocals on “The Great Pandemonium”
Jon Oliva – Vocals on “The Zodiac”
Gus G. – Guitars
Amanda Somerville – Choir on “Poetry For The Poisoned”