Recensione: Point Of Know Return
La ricerca del sapere è un’incognita, un obbiettivo che l’uomo ha perseguito e rincorso fin dalle origini dei tempi.
Le epoche mutano ma la meta non cambia: nel 1977 i Kansas, guidati dai polistrumentisti Kerry Livgren e Steve Walsh, decidono di narrare la grande avventura verso l’ignoto, creando un affresco musicale emblematico, intitolato “Point Of Know Return”.
L’album riprende il discorso iniziato dal bestseller “Leftoverture” (1976), che spianò la strada del successo grazie a un singolo di assoluto valore come “Carry On Wayward Son”.
Le premesse di “Point Of Know Return” si celano nel titolo stesso dell’album, dove la parola “no” è stata sostituita dal verbo “know”, spiazzando l’audience anglofono e creando un gioco di parole che sancisce un forte legame tra la conoscenza, il suo perseguimento e i limiti dello scio umano, rappresentati dal punto di non ritorno.
La partenza verso l’indefinito (ovvero la tensione a superare i propri limiti) è il topos della title track, che traduce in musica l’epoca delle scoperte geografiche e dei suoi illustri protagonisti (primo fra tutti Cristoforo Colombo).
La narrazione è dominata dal desiderio irreprensibile di raggiungere e contemplare la meta agognata (“Point Of Know Return”), un’ossessione che traspare dalla richiesta insistente di Walsh e dai frenetici ricami del violino, una componente essenziale del Kansas sound, capace di rafforzare il senso di inquietudine latente.
Le tematiche coinvolte si ampliano, portandoci al paesaggio di “Paradox”. Le liriche acquistano maggiore complessità, donando alla canzone un flavour criptico e filosofico: la cocente domanda sul significato della vita (…Burning with a question in my mind…) può tramutarsi in un insolito desiderio (…Strange desire…), che spinge l’essere umano a cercare una risposta (…Seems there’s nothing else for me to find…).
L’uomo vive da sempre cercando di dare un senso alla propria esistenza, convinto che la realtà celi molto di più di ciò che vuole mostrare (…’Cause I’ve been here and I’ve been there/seems like I’ve been everywhere before/I’ve seen it all a hundred times/Still I think there surely must be more…).
Di riflesso, il comparto musicale si espande e si intreccia: l’intro di “Paradox” è affidato al suono sacrale dell’hammond, intervallato da brevi pause; ben presto, l’organo confluisce nei tocchi veloci e intensi del violino mentre il tutto acquista coloriture folk e regali, quasi barocche.
La fuga che si genera è strutturata sulla voce calda, hard-oriented di Walsh; le divagazioni degli archi si moltiplicano e si dilatano in dinamismi vari e cangevoli (scale discendenti e ritmiche serrate).
“The Spider” è un inframezzo strumentale in cui i Nostri mettono a fuoco la loro perizia tecnica, snodando partiture, che vedono i diversi strumenti (tasti, violino, chitarra) alternarsi, sovrapporsi e fondersi con dinamismo e vivacità tali da ricordare il rapido guizzare di un ragno.
Il precedente brano svolge il compito di interludio strutturato a “Portrait (He Knew)”, che approfondisce e attualizza il filo conduttore del disco, focalizzando il testo sulla figura storica e umana di Albert Einstein: il celebre fisico è l’allegoria dell’uomo che, spinto dalla sete di conoscenza (…He was in search of an answer…), valica i limiti del sapere per approdare a nuove, grandi conquiste.
La parola “portrait” è astutamente dissimulata nel testo sotto forma di vocaboli diversi e apparentemente slegati (view, his vision, a different idea, master plane), tutte espressioni che riconducono allo stesso, medesimo significato: l’immagine di un piano rivoluzionario ma incomprensibile ai più (…But nobody understood him/…His numbers are not the way…), concepito da una personalità geniale e prolifica (…He has a thousand ideas…), tesa a svelare i segreti reconditi che ci circondano e si celano in ognuno di noi (…In search of… The nature of what we are…).
Ancora una volta ricorre l’immagine del dualismo umano, dove il confine tra genio e pazzia è sottile e sfumato (…the words that he said were a mistery/Nobody’s sure he was sane…).
Partendo da un’immagine così forte, “Portrait (He Knew)” prende forma attraverso una jam session, dove spicca l’intarsio dell’hammond. Ad un tratto, la svolta stilistica: l’hammond scompare, l’intrico di suoni si dirada e il pattern principale muta in un incedere duro, indomito, d’inflessione hard rock. In accordo con l’indurimento del suono, Walsh irrobustisce l’intonazione per dare maggior enfasi alle linee vocali. “Portrait (He Knew)” si eleva nell’unisono delle voci corali, dove si schiudono intervalli sognanti, sui quali il frontman interpreta con velato lirismo l’ennesimo racconto. In seguito, il suono si ispessisce e il crescendo del vocalist apre una giostra di suoni variopinta, ricca di contrasti tonali dei tasti.
Si incastona al centro della composizione l’incedere sincopato del violino che, da un ritmo spezzato, si evolve in un fluire di melodia, forgiata grazie all’apporto essenziale della voce espressiva di Walsh e delle note drammatiche del piano.
“Point Of Know Return” è un forziere ricco di novelle suggestive e figure emblematiche, come il soggetto a cui è ispirata “Closet Chronicles” ovvero Howard Hughes, imprenditore, produttore cinematografico e, non per ultimo, aviatore (dal quale si guadagnò il famoso appellativo di “The Aviator”).
Il ricordo dell’aviatore appare, tuttavia, sfocato e le memorie delle sue gesta traspaiono oramai lontane attraverso la lente di un presente vuoto e caduco (…he is separete from all others… But then one day they noticed he was gone…): “Closet Chronicles” non è l’inno glorioso ai fasti e alle imprese dell’uomo incarnato dalla figura di Howard Hughes ma l’ineluttabile destino che porta al viale del tramonto (…I heard the king was dead… I’ll draw the draps now destiny is done…).
Questa figura controversa incarna alla perfezione la poliedrica e contraddittoria essenza dell’umanità lanciata nella folle corsa verso l’affermazione, per valicare i propri tabù e le proprie restrizioni .
Un soggetto potente ed immaginifico come “The Aviator” non può che tingere il brano di mistero ed ermetismo: nella canzone aleggia la maestosità onirica dell’organo, spezzata solo dai vocalizzi che crescono e si elevano all’unisono, quasi con disperato e accecante splendore.
Presto l’atmosfera si fa ovattata e la voce diventa protagonista di una soffusa armonia, qua e là puntellata dall’infinita, malinconica delicatezza del pianoforte. La musica fluisce e il mondo fatato della giovinezza traspare velato attraverso i sussurri dell’ensemble.
Nel mezzo di “Closet Chronicles” scorre un flusso musicale in cui si disimpegnano la tastiera, la chitarra e l’hammond, creando un movimentato collage ricco di impennate (fughe e vibrati) e momenti più ritmati. Conclude il brano lo squillo di una tromba, che si staglia in lontananza.
Un alone di mistero permea le complesse liriche di “Closet Chronicles”, che mantiene un testo poco accessibile, capace di infondere e aggiungere significati e tematiche che valicano la figura di Howard.
Il nostro viaggio, tuttavia, non è privo di avversità: “Lightning’s Hand” sprigiona l’anima più rocker dei Kansas, generando un vortice di pericolo latente (l’incombere della morte), dove un veloce hammond sospinge la voce evocativa di Steinhardt e le chitarre possono divincolarsi in vibrati gemelli e scale tortuose, tessendo una trama varia ed entusiasmante, che partorirà ammiratori e ispirati interpreti nei decenni successivi (come i Vanden Plas e i Mägo de Oz insegnano).
Tra le righe di “Lightning’s Hand”, si scorgono riferimenti sibillini a una entità superiore, non chiaramente identificabile con una divinità definita e specifica (ad esempio, il dio della tradizione biblica o un idolo nordico), lasciando l’interpretazione del testo a tratti lacunosa: la tesi più accreditata vorrebbe indicare nella morte il soggetto del testo, la tetra mietitrice alla quale nessuno sfugge (…Oh your life is in vain if you try to escape me/Don’t look back – Oh your wealthy world cannot save you/’Cause I’m gonna break you… No one will defeat me, no one can/I command the lightning’s hand!…).
Come ogni grande avventura, anche la nostra conduce a distese vuote e sconfinate, che fanno comprendere l’effimera esistenza umana e portano ad un’analisi di se stessi e degli altri.
Questo momento topico è rappresentato da “Dust In The Wind”, motivo ispirato alla poesia indiana: la song allestisce un palcoscenico dove soffia la delicata voce di Walsh mentre l’arpeggio dell’acustica scorre malinconico come la sabbia del titolo. E’ una canzone quasi scevra da virtuosismi e priva di concessioni all’autocompiacimento, ma è grazie a questa immacolata e apparente semplicità che i Kansas vengono consacrati alla fama (ottenendo il sesto posto nel Billboard, la celebre chart statunitense, e garantendosi l’incondizionata ammirazione degli Scorpions).
I testi di “Dust In The Wind” ingannano lo spettatore, facendogli credere che sia un brano di facile decifrazione: nulla di più sbagliato poiché il testo esprime un profondo senso di finitudine intrinseco nella natura umana e nei beni materiali (…all your money won’t another minute buy…), indicando che l’immensità dell’eterno risiede solamente nel creato (…Don’t hang on, nothing lasts forever/but the earth and sky…).
Dopo la calma di “Dust In The Wind”, sopraggiunge la tempesta nelle vesti di “Sparks Of The Tempest”, annunciata dalla voce urlante e percorsa da un riff hard rock incedente e cadenzato; dai flutti della canzone emerge un solenne hammond, che leviga l’elegante asprezza del guitar work, protratto in un vortice di penetranti assoli. In chiusura, lo schema si ripete ma il ringhio della chitarra assume maggior rilievo, coniando un riff tellurico (per la proposta del tempo), il tutto ingentilito dal suono contrastante del violino.
Nella canzone, i lampi (sparks) annunciano l’avvento di profondi cambiamenti, che portano confusione e infondono paura nell’animo umano, spaventato dall’ignoto (…Run for cover, Millenium’s here/Bearing the standard of confusion and fear…) e senza possibilità di tornare indietro (…No turning back now the wheel/has turned…).
La tempesta è, invece, la proiezione del regime totalitario e Kerry Livgren ne fa esplicita menzione richiamando l’immagine iconografica del Big Brother orwelliano: “…They mold you and shape you, they watch what you do… Your future is managed… and your freedom is a joke… Big Brother is watching and he likes… what he sees”.
Il nostro lungo viaggio sembra avere termine e, dopo la tempesta, dalla penombra filtrano i maestosi suoni dei tasti nel panorama di “Nobody’s Home”: ben presto, si affaccia il suono velato del violino e con delicatezza il main vox descrive le sofferenze patite mentre i tocchi del piano accarezzano le strofe. Il viaggiatore a cui fa riferimento il testo è un alieno che raggiunge il pianeta terra per visitare i suoi abitanti come amichevole ospite.
Purtroppo, lo scenario che si presenta all’extraterrestre è di morte e distruzione provocate dall’insensata follia della guerra nucleare, devastatrice della razza umana.
La sensazione regnante non è, dunque, di felicità e sollievo per il raggiungimento della meta agognata ma di vuoto e spossatezza, tanto da chiedersi cosa abbia spinto a raggiungere tale luogo (…So far I’ve come to find there’s no one/here no life & fear…) e sorge il dubbio dell’inutilità di un viaggio che ha comportato più sacrifici che vantaggi (…I came for nothing, they have gone… I’am alone/And Nobody’s Home…).
Tutta l’amarezza e tutto il rimpianto vengono perfettamente sublimati dall’unione appassionata tra piano e violino nel ritornello portante, forgiando una melodia di assoluto splendore.
L’intrico sonoro di “Nobody’s Home” procede scorrendo tra le note (ora più vivide, ora più soffuse) del violino, ispirato narratore delle traversie umane.
Il gran finale è affidato ad una grandiosa visione panteistica: rivoli armoniosi scendono come una cascata nell’intro di “Hopelessly Human”, con veemente, regale forza espressiva, per diradarsi in gocce di melodia che delicate sfiorano il main vox..
Questa volta è Robby Steinhardt a plasmare la melodia, grazie ad una sapiente modulazione della timbrica, in perfetta sinergia con le coreografie vocali di Walsh: la condizione umana (definita senza speranza) viene ritratta da pennellate vocali ora più chiare e intimiste, ora più calde e accorate (nel teso repeat sostenuto dai backing vocals). Il violino completa il quadro sonoro aggiungendo striduli acuti mentre insegue la sei corde. La chitarra si alterna con gli altri strumenti espandendo il cosmo musicale, che inanella un loop variopinto, dove ogni strumentista riesce a creare un attimo di estasi e spaesamento.
Questo panorama multicolore è la fedele trasposizione della mente umana, eccezionale e straordinaria aberrazione (…It’s a strange aberration, this brain…), capace di sconvolgere la già tormentata giovinezza (…storm of youth…) nella speranza di dare un significato alla vita.
Nell’ultima strofa la canzone è quasi prepotentemente autoreferenziale: il singolo (rappresentato dallo stesso Livgren) ha la necessità disperata di trovare la propria collocazione nel disegno universale attraverso uno specifico percorso. Nel caso di Kerry, questa strada coinciderà con il percorso fideistico, fedelmente riflesso e portato a compimento nella poetica musicale (…All is rhythm, all is unity… I am using the… Word was given, Making harmony…).
Alla luce di quanto detto, sarebbe sbagliato ritenere “Point Of Know Return” una celebrazione dell’umanesimo rinascimentale ma è altrettanto errato considerare quest’opera un sudario intriso da profondo nichilismo: l’uomo deve prendere atto della propria effimera esistenza e deve essere in grado di trovare, grazie alla ragione, un ruolo nell’eden cosmico, evitando che la stessa ratio lo conduca ad una esistenza insensata e/o sconsiderata, portandolo verso una fine vuota quanto rovinosa.
Senza saperlo, i Kansas con “Point Of Know Return” descrissero non solo un viaggio allegorico ma raggiunsero anche l’apice del proprio percorso artistico: sotto questa luce l’album è l’interlocutorio messaggero, che preannuncerà nuove mete per i Nostri e la futura uscita di Walsh, che nel 1982 deciderà di abbandonare il complesso, fondando gli Streets.
Al di là di tutto, “Point Of Know Return” è l’ennesima, straordinaria testimonianza che la ragione e il cuore, la scienza e il mito sono i due componenti indivisibili dell’io umano, i quali si sfidano e si amano in un alterco infinito.
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