Recensione: Points North
Chi tre anni fa, come il sottoscritto, si era perso un buon disco dal titolo Road Less Traveled, oggi ha l’occasione di rimediare e scoprire, con il secondo album dei Points North, una valida band strumentale che ha tutte le carte in regola per produrre qualcosa di interessante nei prossimi anni.
Power trio statunitense composto da Eric Barnett alla chitarra, Uriah Duffy al basso e Kevin Aiello alla batteria, i Points North si sono formati in tempi recenti, ma hanno già le idee chiare sulla musica che vogliono suonare e possiedono le capacità per realizzarla. Anche con un ascolto superficiale, infatti, ci accorgiamo di avere a che fare con un gruppo di professionisti; se non bastasse, una rapida occhiata ai loro curriculum toglierebbe ogni possibile dubbio: si tratta di apprezzati session men con una notevole esperienza alle spalle e collaborazioni con nomi molto noti in ogni genere, dai Whitesnake a Christina Aguilera, dai The Offspring ad Alicia Keys.
Così come il precedente, il nuovo album si pone a cavallo tra progressive e hard rock, alternando di continuo momenti elaborati ad altri più diretti, un compromesso più difficile di quanto si possa pensare, ma la band sa destreggiarsi senza problemi tra i due generi, e riesce sempre a rendere la propria musica accessibile, nel senso migliore del termine, anche grazie a uno spiccato gusto melodico. Parlando di influenze, i primi due nomi che vengono in mente sono senza dubbio Rush e Joe Satriani, perfetti per dare un’idea iniziale del sound e degli stili che i Points North vogliono conciliare, ma si possono sentire anche i Dixie Dregs, Steve Morse o Steve Vai. Inevitabile quindi che sia la chitarra a tracciare le linee guida tra riff, accordi e melodie, tuttavia anche il basso sa ritagliarsi uno suo spazio, uscendo spesso dal ruolo di semplice accompagnatore per lanciarsi in assoli ricchi di tapping e slap.
Tante volte capita di leggere commenti a proposito di una band come: “Non hanno inventato niente, ma sono bravi”; oppure: “Bravi, ma sono cose già sentite”. Frasi simili ma con un giudizio implicito molto diverso, e nel caso dei Points North vale di certo la prima. Arriviamo, quindi, al primo e unico difetto del disco, che purtroppo non si può ignorare, ossia un evidente debito nei confronti degli artisti citati. Se le similitudini con Satriani emergono nella maggior parte dei brani, quelle con i Rush si fanno fin troppo evidenti in certi punti, tanto che alcuni passaggi sembrano usciti direttamente dalle mani di Alex Lifeson. Più in generale, il trio di San Francisco non può (e forse non vuole) puntare sulla sorpresa, poiché le sonorità che cerca sono già state ampiamente esplorate a partire dagli anni ’80, se non prima. Un peccato perché la stoffa c’è, ma continuando su questa strada sarà difficile distinguersi tra i numerosi gruppi strumentali nati negli ultimi anni; in questo senso un buon esempio potrebbe arrivare dai The Aristocrats, che hanno saputo mettersi in mostra non solo per l’innegabile tecnica, ma soprattutto per un approccio moderno ed eclettico.
Ma infondo l’aspetto derivativo della musica è un difetto che si perdona volentieri a un album che dimostra di essere impeccabile sotto ogni altro punto di vista: le composizioni riescono a mantenere la loro eleganza anche nei momenti più tirati e la tecnica dei musicisti (a dir poco invidiabile) è dosata e inserita nei punti giusti, sempre al servizio della melodia. In effetti le undici tracce stupiscono per la loro qualità, che resta costante per tutto l’album, nonostante ci siano brani più riusciti di altri, come è normale che sia. “Ignition” per esempio è un pezzo frizzante ed energico, impreziosito da uno squisito intermezzo fusion nella parte centrale; “Northstar” è l’ideale per un viaggio in autostrada a bordo di un’auto decapottabile durante una giornata di sole; “Turning Point (La Villa De Villers)” è il brano più progressive del disco, vario e articolato, e riunisce tutte le migliori caratteristiche dei Points North. Il clima è per lo più vivace e positivo, a tratti leggero, ma c’è spazio anche per brani delicati come “Harlequin” che, contaminata da un pizzico di flamenco, sviluppa un intenso crescendo emotivo, risultando la migliore fra le ballate.
Un disco dalle tante sfumature dunque, pieno di quei piccoli dettagli che stuzzicano le orecchie del pubblico dei musicisti, ma senza la pretesa di essere elitario; al contrario, la sua atmosfera gradevole gli permette di avvicinarsi anche a chi di solito non ascolta questo genere. Suonare musica complicata senza diventare esibizionisti o cervellotici è un merito non da poco, e forse è proprio questo duplice aspetto che fa del self-titled dei Points North un album che si riascolta volentieri anche dopo diverso tempo, almeno fino alla loro prossima uscita.