Recensione: Polaris
Altro che talent show.
Se c’è un gruppo che può vantare di aver raccolto buonissimi riscontri, di critica e – proporzionalmente alla nicchia di genere – pure di pubblico, solo ed esclusivamente grazie alle proprie forze e al proprio talento e senza mai far ricorso a mezzucci di vario genere, questi sono proprio i TesseracT.
Giunti al traguardo del terzo album sulla lunga distanza (senza quindi contare il considerevole numero di EP pubblicati nel frammezzo) e reduci dal miliardesimo cambio di vocalist, con il rientro in squadra dell’apprezzatissimo Daniel Tompkins gli inglesi possono oggi vantare un seguito ormai consolidato, frutto di anni e anni di passaparola tra gli appassionati. Per questo motivo – e considerando l’elevato valore della loro proposta – non deve pertanto stupire che ogni nuova uscita firmata TesseracT porti in dote grandi attese e un certo fermento: è il giusto premio per una delle poche band ancora in grado di stuzzicare ed alimentare la fantasia dell’ascoltatore.
Dagli esordi – contrassegnati dall’uscita dell’EP “Concealing Fate” e del successivo LP “One” – fino alla pubblicazione di “Altered State” il sound del Tesseratto ha subito non poche evoluzioni, pur mantenendo inalterati quei caratteri di base che hanno provveduto a definirne l’identità. Se, infatti, all’interno delle undici tracce di “One” era senza dubbio la componente meshugghiana – pur ravvivata da frequenti aperture melodiche di gran pregio – ad avere la meglio, su “Altered State” l’affascinante spigolosità del debutto era andata un po’ perdendosi lasciando campo libero ad armonie vellutate tra le cui pieghe svettava la splendida voce di Ashe O’Hara.
In questo senso “Polaris” si configura come un nuovo punto di equilibrio nell’economia del sound di Acle Kahney e compagnia: più melodico del debut ma nel contempo maggiormente ricercato del suo predecessore, recupera un sound più ruvido rispetto al recente passato e certamente trae giovamento dalla maggior varietà espressiva del figliol prodigo ritornato dietro al microfono. Senza nulla togliere al validissimo O’Hara, la prestazione offerta da Tompkins su “Polaris” è a tratti davvero entusiasmente, quasi a voler legittimare e – perché no? – rivendicare quel posto cui egli stesso aveva rinunciato ormai tre anni or sono.
L’album si gusta dall’inizio alla fine senza soluzione di continuità e – soprattutto – senza cadute di tono, per quanto alcuni brani finiscano inevitabilmente per spiccare rispetto agli altri. “Dystopia” e “Hexes” aprono le danze con riff, ritmiche e soluzioni vocali che – com’era lecito attendersi – strizzano l’occhio a soluzioni già sentite ai tempi di “One”, ma è partire dalla spettacolare “Survival” che si incomincia a fare sul serio per davvero grazie ad una melodia vocale indovinatissima – eppur tutt’altro che banale – intonata con grande maestria e sentimento da un ottimo Daniel Tompkins.
“Survival”, ad ogni buon conto, è solo la prima di una serie di brani di elevatissima caratura, della quale fanno parte – tra le altre – l’eterea “Tourniquet” e le splendide “Phoenix” e “Seven Names”, molto valide a livello di contenuti ma elevate al rango di capolavori dalle performance di un Tompkins assolutamente stellare. Detto dei tre brani di gran lunga migliori del lotto, è giusto spendere qualche parola anche per le restanti tracce. Dalla nervosa “Utopia” – nella quale il solito Tompkins azzarda pure un rappato (incredibilmente) azzeccato, alla spettacolare “Messenger” – dominata in lungo e in largo dal basso sferragliante di Amos Williams – fino alla più particolare “Cages”, “Polaris” scorre infatti che è una meraviglia, senza annoiare e anzi dando nuova linfa a quello che va ormai configurandosi come uno stile collaudato e connaturato nell’essenza della band.
Un grande album, per farla breve, nel quale i TesseracT ampliano il loro spettro espressivo senza tradire le origini e anzi raggiungendo un nuovo equilibrio concettuale all’interno del loro universo. Assolutamente da non perdere per tutti gli amanti del prog di ultima generazione e in generale per tutti gli amanti della buona musica.
Stefano Burini