Recensione: Pompei
A cinque anni da quel gioiellino che risponde al nome di ”Ithaca”, i Dark Quarterer pubblicano la loro nuova bombetta. Tra pochi giorni, infatti, uscirà “Pompei”, ottavo album per lo storico gruppo di Piombino che da più di quattro decenni aleggia solenne sullo Stivale. Già basterebbe l’ottima copertina di Paolo Giraldi per accendere l’interesse del consumatore occasionale, ma se ci aggiungiamo anche il nome Dark Quarterer le probabilità che si stia per raggiungere il jackpot si fanno ben più che concrete. Non sarò brevissimo, per cui se avete fretta sappiate solo che i Dark Quarterer non ne sbagliano uno e chiudetela qui. Per tutti gli altri: mettetevi comodi e concedetemi un po’ del vostro tempo.
Da poco passati sotto Cruz Del Sur – che già aveva messo lo zampino sulla distribuzione di alcuni album dei nostri e, a furia di accaparrarsi gruppi di caratura superiore gravitanti nell’orbita del mio sottogenere favorito, è ufficialmente divenuta la mia etichetta discografica di riferimento – i Dark Quarterer sfornano un concept sulla tragica vicenda di (indovinate un po’?) Pompei, spazzata dalla furia del Vesuvio nel 79 dopo Cristo (di cui, tra l’altro, una decina di giorni fa si è celebrato l’anniversario). Per essere precisi, il concept si basa sul testo del 2014 “Gli ultimi tre giorni di Pompei” del mai abbastanza lodato Piero Angela, e vede i nostri approcciarsi alla tragica vicenda da diversi punti di vista, ivi compreso quello del vulcano stesso, visto come un’entità senziente bisognosa di svegliarsi di tanto in tanto dal suo letargo. Visto il carico di pathos che il materiale di partenza si porta dietro, il progressive metal del gruppo si fa sulfureo, pesante, accantonando in parte l’ostentazione del lavoro precedente per tingersi di toni plumbei, opprimenti come una nuvola di ceneri vulcaniche, mescolando al tipico suono del gruppo elementi più grezzi, graffianti e arcigni, e atmosfere vicine al doom. Dopo queste ultime righe, molti di voi si staranno preoccupando per la sorte della componente epica dei nostri, che sembra stata messa da parte; non temete, ci torneremo poi.
Che qualcosa sia cambiato si capisce già dai primi istanti di “Vesuvius”: paragonato all’incipit di “The Path of Life”, il lento e sommesso crescendo dell’opener di “Pompei” trasmette pesanti dosi di inquietudine magmatica, che deflagra poi nella pienezza inquietante declamata dalla particolare voce di Gianni Nepi, elemento caratteristico del gruppo e, per quanto mi riguarda, arduo scoglio da superare durante il mio primo approccio (alcuni anni or sono) alla proposta dei piombinesi. La canzone avanza possente su un tappeto scandito e minaccioso per metà della sua durata, mescolando martellate heavy doom dal tono cupo e sacrale a svolazzi prog ed accelerando improvvisamente nella seconda metà. Qui l’amore dei nostri per le partiture anni ’70 riprende il sopravvento, trasformando il tutto in un vortice hard rock dall’intenso profumo progressive, che acquista densità fino a una nuova picchiata nel doom più solenne e mefistofelico. La stessa aria si respira nella successiva “Welcome to the Day of Death”, che si carica di una certa solennità di fondo tra un riff stoppato e un fraseggio rétro acquisendo, di tanto in tanto, un’aura più maestosa ma non per questo meno inquisitoria. Ciò anche grazie alla voce di Gianni, che passa dal suo classico falsetto a passaggi più beffardi e sulfurei. L’intermezzo dimesso che apre l’ultimo quarto introduce l’assolo che guida la carica finale, prima di cedere il posto alle urla terrorizzate di “Panic”. Qui, dopo un inizio ancora una volta drammatico, i nostri si adagiano su velocità medie, consentendo al pianoforte di donare al pezzo un andamento ondoso e coprire almeno in parte la tensione creata dal resto del gruppo. La canzone avanza così, in modo guardingo e con un paio di impennate che lasciano presagire qualcosa di più inquieto, caricandosi di un pathos solenne e tragico finché gli argini si rompono e il gruppo esplode nell’epica magnificenza che stavo aspettando dall’inizio dell’album (visto? Ve l’avevo detto che ci saremmo tornati) e per cui i Dark Quarterer sono celebri. La sezione strumentale seguente si tinge di prog di classe, togliendo all’ascoltatore punti di riferimento per poi tornare di colpo a battere sull’epicità pura, esasperata, trionfale, tessendo una melodia che non vi toglierete dalla testa per settimane. Il pianoforte torna poco prima del finale per stemperare il tutto e accompagnando l’ascoltatore alla chiusura del brano. Un attacco nuovamente inquieto e vagamente in odore di anni ’70 apre “Plinius the Elder”, che poi si irrobustisce grazie a pesanti scudisciate heavy doom. La canzone mantiene costante una certa tensione che il piano cerca invano di smorzare con le sue fuggevoli comparsate, salvo pretendere il centro della scena durante la dolcissima pausa che riecheggia certo progressive languido, crepuscolare. L’eccellente sezione strumentale che segue trasforma il pezzo in un caleidoscopio di emozioni, impennando nuovamente il tasso di pathos in un crescendo maestoso ma smarcandosene proprio all’ultimo. Nel finale, infatti, si torna a una solennità cupa e velatamente incombente che si chiude con una nuova maestà.
Il cozzare delle lame apre “Gladiator”, traccia secca e ritmata dall’incedere tipicamente heavy. Anche qui, i nostri mescolano le carte con sporadiche incursioni più ariose che smorzano la cupezza del pezzo, giungendo al crescendo centrale che apre a un intermezzo atmosferico al tempo stesso sanguigno e drammatico. Questa ambivalenza ci accompagna per tutta la seconda parte della traccia, che si chiude con una nota inquieta che cede il passo alla conclusiva “Forever”. L’arpeggio dimesso che apre la canzone rintuzza il filo di voce di Gianni, che usa qui i suoi toni più narrativi. La traccia prende corpo pian piano, caricandosi di pathos fino a diventare una marcia trionfale non priva, però, di una certa tensione di fondo. La brusca interruzione centrale apre a una sezione più dimessa, intimista, che di nuovo si tinge di trionfo in concomitanza col lungo assolo che sfuma nel finale dell’album, chiuso da uno scampanio dimesso.
Signore, signori: come scrivevo qualche centinaio di parole più su “i Dark Quarterer non ne sbagliano uno“, punto e a capo.
“Pompei” è un album dalle molte sfaccettature, che sa essere al tempo stesso grintoso, cupo, grezzo ed elegante e dimostra ancora una volta come il gruppo di Piombino abbia una marcia in più rispetto a molta concorrenza. In tutta onestà devo ammettere che, al momento, gli preferisco ancora alcuni album precedenti dell’italico quartetto, ma forse è solo perché non ho ancora metabolizzato a dovere l’album che, come tutti i lavori dei nostri, non va ascoltato alla leggera. Ad ogni modo, avercene di lavori così: per chi non l’avesse capito, “Pompei” è l’ennesimo centro secco per un gruppo di cui andare fieri.
Ma questo lo sapevate già, vero?