Recensione: Portal of I
“…they create music of many extremes including darkness, light, intensity, melody, brutality and beauty.”
Ecco un estratto della breve descrizione che i Ne Obliviscaris fecero della propria arte già nel 2006, anno che precedette la realizzazione del loro primo demo, “The Aurora Veil”. Un biglietto da visita che potrebbe suscitare persino ilarità, a dir poco impegnativo ed ambizioso per affacciarsi al mondo musicale, col rischio concreto di disattenderlo clamorosamente e bruciarsi in partenza. Col senno di poi si può affermare che l’azzardo riuscì alla grande: il demo attirò parecchia attenzione riscuotendo giudizi in prevalenza entusiastici grazie ad una qualità complessiva, dalla musica al suono, decisamente alta ed inusuale per quel tipo di release.
A causa di cambi di line-up e vicissitudini varie, la band di Melbourne giunge a quasi un decennio dalla sua formazione, avvenuta nel 2003, a questo primo full-length intitolato “Portal of I”, distribuito globalmente dall’italiana Code666.
Un portale rivolto a me ascoltatore, che stimola a guardarsi dentro, a comprendere il valore della propria immaginazione e, per mezzo di essa, della propria persona. La copertina ne è idealmente l’ingresso, contraddistinta da ricchezza simbolica e cromatica che invita a proseguire. Ci si accorge subito che non sarà impresa semplice muovere i primi passi al suo interno: si viene immediatamente e perennemente travolti da un turbinio di note e di parole ricercate, complesse e mai scontate, con le quali perdersi, commuoversi, interrogarsi, meravigliarsi e ritrovarsi. Ecco dunque il filo conduttore dell’universo Ne Obliviscaris: la vita, con tutto ciò che ne consegue, comprese la morte, le inquietudini e le speranze.
Musicalmente viene proposto un metal che unisce l’efferatezza black all’aggressività death, marcatamente melodico e progressive, a cui vanno ad aggiungersi un affascinante uso del violino, accompagnamenti e passaggi di chitarra acustica, influenze jazzistiche e flamenco. Tali ingredienti sono stati sapientemente amalgamati o alternati, alcuni risultano talvolta sfumati e quasi impercettibili, creando uno stile vario ma globalmente solido ed equilibrato. Ciò è dovuto al fatto che i tre brani che componevano “The Aurora Veil” vengono riproposti qui e il sound della band nelle rimanenti tracce è in sostanza lo stesso; inoltre i Ne Obliviscaris sono musicisti di prim’ordine e nel songwriting si riflettono la formazione musicale e le influenze di ciascuno.
Il violino è l’elemento più caratterizzante che tra le mani di Tim Charles prende letteralmente vita, divenendo romantico interprete di sentimenti, indomabile e sinistro nei momenti concitati e brutali, elegante e sinuoso in quelli più rilassati. Quasi onnipresente, si inserisce tra gli altri strumenti con sconcertante naturalezza instaurando un rapporto simbiotico inscindibile; a volte si limita a dialogare con essi ma non perde occasione per rubare la scena alla chitarra solista, elevandosi a protagonista indiscusso. Tra i suoi contributi più significativi si possono citare quelli presenti in “As Icicles Fall”, l’intro andalusa e passionale di “And Plague Flowers the Kaleidoscope” e lo struggente ultimo minuto di “Of the Leper Butterflies”, uno dei picchi emotivi dell’album.
Sempre ad opera di Charles è la voce pulita dal tono compassato che si cimenta spesso, e con successo, in suggestivi falsetti; contrasta e si completa con Xenoyr, autore delle harsh vocals, che passa con efficacia da growl ruggenti a scream furiosi. Alcune sovrapposizioni fra i due cantanti sono davvero notevoli, come nella seconda metà di “Forget Not” (titolo che è anche la traduzione dal latino all’inglese di Ne Obliviscaris). Menzione doverosa per un altro highlight, il gran finale della conclusiva “Of Petrichor Weaves Black Noise”, nel quale un coro solenne e celestiale, delicatamente accompagnato da chitarra e violino, fa da preludio ad un crescendo sonoro impetuoso.
La batteria è più che mai il collante dell’album. Mortuary, appena sostituito da Nelson Barnes (già nei The Schoenberg Automaton), esibisce una prestazione esplosiva, raggiunge velocità folli e conferisce robustezza e corposità anche alle fasi dalle avvolgenti melodie, evitando cali di attenzione durante l’ascolto. Raramente si fa da parte, come quando l’atmosfera diventa particolarmente introspettiva. L’opener “Tapestry of the Starless Abstract” è rappresentativa del grandioso compito svolto dall’ormai ex batterista. Il nuovo arrivato ne sarà indubbiamente all’altezza.
Impeccabile pure il lavoro alle chitarre, con Benjamin Baret alla solista e Matt Klavins alla ritmica e all’acustica, che sfoggiano una varietà non indifferente di stili e di tecniche, che si intrecciano e si susseguono anche all’interno di singoli brani. Un ottimo esempio è dato da “Xenoflux”, caratterizzata da un riffing complesso e mutevole.
Per ultimo, ma non meno importante, Cygnus al basso, che non si limita ad accompagnare ma riesce a ritagliarsi il proprio spazio ricoprendo con merito il ruolo di abilissimo comprimario in certe parti strumentali.
Terminata questa esplorazione, non resta che ripeterla e tornare a perdersi nell’inebriante dualismo fra quiete e tempesta, fra soavi arpeggi e tremolo picking, fra colpi isolati e blast beat.
Interiorizzare oltre settanta minuti così ricchi, personali e tecnici non è affatto immediato ma la soddisfazione che se ne trae ripaga ampiamente il tempo passato a scorgere ogni singolo dettaglio di “Portal of I“. Allo stesso tempo è un album che può contare su compattezza e scorrevolezza d’insieme, nonché su una produzione veramente ottimale e sull’assenza di elementi inutilmente barocchi e fastosi.
Difficile individuare il bacino dal quale attingeranno nuovi fan, con ogni probabilità tra gli amanti degli interpreti del metal, come Enslaved e Opeth, ma c’è il potenziale per attrarre menti libere da schemi e preconcetti. Di certo quando si ha la fortuna di imbattersi in un lavoro così appassionato e variopinto non lo si può negare ad alcuno. Rifacendomi alla citazione iniziale: questa è davvero bella musica, da avere.
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