Recensione: Portals into Futility
Ispirandosi alla fantascienza distopica tornano gli statunitensi Usnea con il loro terzo full-length in carriera, “Portals into Futility”. Forse un argomento non originalissimo ma che, all’interno della proposta musicale in esame, si trova perfettamente a suo agio; miscelandosi al 100% con lo stile non proprio scontato del quartetto di Portland.
Stile che abbraccia due generi: il doom e lo sludge. Con un’evidente preminenza del primo, soprattutto per quanto riguarda l’abissale profondità emotiva generata dalle cinque song del platter. Già individuabile, essa, nel lentissimo inizio dell’opener-track, ‘Eidolons and the Increate’, ove i riff delle due chitarre tracciano dei sommessi lamenti, aizzano delle lisergiche visioni apocalittiche. Le quali, appunto, prendono sostanza in disegni societari spaventosi, negativi, che descrivono comunità di persone manifestamente negative sotto tutti i punti di vista.
La continuità del discorso artistico è rilevante, anche quando la band alza il ritmo, per così dire, facendolo sempre restare in precisi binari immaginativi. “Portals into Futility” consta di cinque song, chiaramente animate di vita propria ma fluenti nell’unica corrente di pensiero che anima il disco stesso. Il che significa che al mutare degli episodi non muta ciò che osserva la mente. Un sintomo apprezzabile, indicativo di una non comune capacità di songwriting, capace di muoversi a 360° senza spostarsi dal centro del discorso.
A un ascolto distratto l’album potrebbe al contrario apparire sfilacciato e poco coeso. Forse perché le linee vocali sono due, ben distinte fra loro. Una in growling, roco, soffuso, violento (‘Demon Haunted World’); l’altra in clean, spesso trasognante, vagante nell’etere, nebbiosa. Invece, insistendo – operazione peraltro agevole poiché esiste ed è presente una certa melodiosità (‘Lathe of Heaven’) – , si scopre che la rotta percorsa dagli Usnea è una e una sola.
Del resto non è immediato assimilare brani non particolarmente complessi ma molto lunghi e cangianti. Anche se la stupenda suite finale, la closing-track ‘A Crown of Desolation’, rende evidente la facilità e semplicità con cui i Nostri riescano a completare quasi venti minuti senza annoiare, anzi.
Non solo senza annoiare ma riuscendo a trasmettere appieno il senso di disperazione che si può provare nel vivere in un insieme, benché ipotetico, di persone sottomesse e senza speranza. Ecco che la fantascienza prende forma e sostanza in ‘Pyrrhic Victory’, sofferente e sofferto viaggio nell’io più nascosto, nel quale emerge, in tutta la sua disperazione, l’assenza di gioia, la tristezza per l’aridità della realtà, la desolazione esistenziale. Soprattutto quando i BPM diventano davvero pochi e, quindi, la rarefazione del riffing assume carattere di allucinata distorsione.
Di nuovo su ‘A Crown of Desolation’, ma non poteva essere altrimenti: il brano è assolutamente di rilievo e va gustato, soppesato, metabolizzato nota per nota, molecola per molecola, atomo per atomo. Le clean vocals diventano screaming, a volte, per sottolineare la desolazione di un mondo cupo e funesto, la cui unica manifestazione possibile è quella di chinare il capo, di arrendersi al destino.
Doom.
Usnea.
Daniele “dani66” D’Adamo