Recensione: Posthaste
Imbattersi un disco strumentale dal primo all’ultimo secondo produce sempre emozioni contrastanti, un po’ come trovarsi davanti ai Fratelli Karamazov, o comunque, a certi libroni di oltre 1000 pagine: indubbiamente si è affascinati dalla mole del prodotto, che richiederà una dose di attenzione superiore alla media per essere compreso ed apprezzato. D’altra parte codesta mole (d’opera artistica e d’attenzione) finisce anche per scoraggiare ed atterrire, perché sublima in sé l’idea di un viaggio lungo ed intricato.
In tal senso, il modo migliore per affrontare uno strumentale è quello di ascoltarlo mentre si è immersi in tutt’altra attività, quale che sia. Al primo ascolto in mente vi resterà meno di nulla ma, nel fluire degli eventi, la musica si fa inevitabilmente largo tra le pieghe del vostro distratto subconscio, se si tratta di musica di qualità e ben progettata.
Ne sapranno certamente qualcosa gli amanti del post metal, che dopo aver soffocato a stento gli sbadigli al primo ascolto di un “Panopticon”, successivamente avranno consumato la testina laser del lettore a forza di farvi girar sopra il debut degli Isis. Ed egualmente, chi ad un primo ascolto si è innamorato di “Aava Tuulen Maa“ dei Kauan, due anni dopo avrà liquidato senza troppi ripensamenti “Kuu“, seconda prova del duo russo. E questi non sono nemmeno dischi completamente strumentali.
Ma qui non si parla di post metal, qui si parla di prog virtuoso e raffinato, qui si parla degli OHMphrey, quintetto che unisce la complessità degli Archive, o degli slovacchi Ako Doma, alla ricchezza di un Jordan Ruddess (“Rythm of time“ è un disco incredibile) o del Roine Stolt di “Wall Street Woodoo“ e un po’ di Satriani. Parecchie chitarre e buone tastiere insomma.
E si noterà a questo punto che di nomi essenzialmente metal ne sono stati sciorinati pochissimi, e così dev’essere, poiché qui c’è progressive in ogni millisecondo, ma è un progressive ottimamente bilanciato e mai violento, nonostante le note leggermente southern dell’apripista “Devil’s In The Details“. Un titolo che appieno esprime la natura della band nella sua diabolica cura di ogni minuscola scheggia sonora, di ogni pigolio di chitarra.
Ciò nonostante “Posthaste“, guidato dall’impeccabile sei corde di Chris Poland, si sviluppa su alti e bassi, con canzoni che conquistano subito ed altre che non vogliono sapere di entrarvi in testa.
Ad esempio alla delicata e liquida “Tom Bombadil“, un brano sognante davvero favoloso che nulla ha in comune con il personaggio dello Hobbit, fa da contraltare una farraginosa “The River Runs“ che non decolla mai veramente. E così via. Il disco risulta piuttosto vario e colorito in alcune parti, soprattutto quelle dove salgono in cattedra le suadenti tastiere di Joel Cummins o il basso multiforme di Robertino Pagliari (i minuti finali di “20/20” sono qualcosa che in musica leggera non si sentiva dai tempi di “Entering The Spectra“ dei Karmakanic).
All’opposto vi sono momenti in cui il gruppo sembra troppo rigido ed ingessato nella propria meticolosità, momenti in cui non giungerà mai neppure ai vostri lobi, figuriamoci ai timpani.
Ed è una cosa piuttosto strana, anche perché, nonostante la grande varietà di sfumature sonore, le 9 tracce risultano complessivamente omogenee.
Ma effettivamente questo è sempre stato un difetto dei dischi strumentali, perché a concentrarsi troppo sulle matematiche alchimie delle note alle volte capita di perdere per strada l’anima. Questo discorso vale benissimo per “Posthaste“, fascinoso ed ammaliatore in certi momenti, piatto e statico in altri.
Ma in ogni caso, a scanso di equivoci, non si discute che siano i primi a prevalere.
Sicuramente meglio di qualsiasi Shredder…
Tiziano “Vlkodlak” Marasco
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Line Up:
Chris Poland – guitars
Robertino Pagliari – bass
Jake Cinninger – guitars
Joel Cummins – keyboards
Kris Myers – drums
Tracklist:
01. Devil’s in the Details
02. The Sun Also Rises
03. Tom Bombadil
04. The River Runs
05. The Shoemaker’s Back
06. Ramona’s Car Wash
07. Reggaelic
08. Firestarter
09. 20/20