Recensione: Potop
Neoheresy è la creatura che ha preso il posto della one-man band Hellveto dal 2014. Restando sempre progetto composto da un solo membro continua, senza stravolgere nulla, sulla linea del passato: symphonic/pagan metal il suo, minimale nei toni, ma capace di commuovere.
Considerando che l’attività della band, sin dal 1995, è sempre stata molto prolifica di full-length, notiamo come Potop sia il quarto lavoro con questo appellativo, ed il primo di due album nel 2016.
Come detto poc’anzi, non è ovviamente il tecnicismo l’obbiettivo di F, il cui scopo è emozionare attraverso ambientazioni che richiamano il paganesimo più sincero e legato alla natura che ci circonda. In questo senso, ci sentiamo di poter affermare che la coerenza, e la voglia di non perdersi in arzigogoli sarà gradito da chi va ricercando una genuinità che parta dalle tematiche, per arrivare ad espressioni sonore parche e per nulla sperimentali. La gioia così del gesto più schietto, di un amore fatto di cenni quotidiani o di un silenzio di contemplazione, sono la più alta rappresentazione di un’ autenticità che arriva dal cuore.
In una società in cui il profumo della terra e delle piante non è nemmeno più preso in considerazione, in cui il silicio ci soffoca di bisogni che non dovrebbero essere tali, lo spirito di Neoheresy diventa spunto di riflessioni.
L’impasto di voci, e le ripartenze più black sono sferzata che ci fa alzare lo sguardo a sfumature e luci che sino a poco prima nemmeno consideravamo, testa abbassata che osservava realtà distanti, e che non riusciva a comprendere la via su cui stava camminando.
Il tempo scorre non più distrattamente, ammirando ora l’istante in cui l’autunno ed i suoi colori lasciano il posto all’inverno, malinconicamente guadando la natura addormentarsi. Ci lasciamo cullare da questa serenità, liberi da ogni ansia, lontani dal quotidiano batter di tasti che non scandiscono null’altro che il peso di un’inutilità di intenti. Così vi descriviamo un full-length che accostandosi a maestri quali primi Vintersorg e Falkenbach, riesce a mescolarsi all’anima, avvolgendo e riscaldando.
I passaggi sinfonici sono strutturalmente ben più complessi di quanto a primo impatto potrebbero sembrare, come del resto anche le suite più folk, suadenti immagini di pagana essenza. Piedi conficcati nella terra, fuoco che brucia all’interno di un casa imbevuta di racconti, legno grezzo che sfioriamo ascoltando di riflesso un cuore che diventa un tutt’uno con le note. Vi volete emozionare? Potop è giusto per voi.
Stefano “Thiess” Santamaria