Recensione: Power Up

Di Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno - 9 Novembre 2020 - 6:38
Power Up
Band: AC/DC
Etichetta: Sony Music
Genere: Hard Rock 
Anno: 2020
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
70

Quando San Paolo nella I lettera, con toni pacifici e amareggiati, confidò a Timoteo di non impegnarsi per cambiare lo stato delle cose in ambito religioso, sicuramente non pensava che nel lungo trascorrere del tempo si sarebbe diffusa la dottrina, poi divenuta imperante, del “gattopardismo”, di quella confortevole e comoda tendenza a “cambiare tutto affinché nulla cambi”. Qualcosa, o per fortuna tantissimo, nel corso della Storia è però cambiato e sta cambiando, perché tanti e collimanti indizi, che trovano congiunzione con prove indiscutibili, fanno credere che moltissimo, nella società, non è in profonda crisi di identità, non versa in uno stato di abbandono, ma brama per potersi collocare in quel limbo costellato di originalità e preziosismi che poi permetterà di lasciare traccia ai posteri ai quali, anche tacitamente, spetta la manzoniana e salmodiante “ardua sentenza”.

Talvolta tutto questo accade nel mondo della Musica: storie musicali in piena e prodigiosa fioritura che accendono il focolaio dell’entusiasmo, del piacere, della dipendenza e dell’assuefazione, come se ci si trovasse nel pieno dello sbocciare dei ciliegi a Yoshiko, contrapposte a tristi, appassiti e nostalgici culti di un passato ormai andato che innesca quell’atteggiamento di soffrente rimpianto per quello che non è stato. Questa situazione è una costante di tutti i tempi e di tutte le varie sfere del vivere umano.

Gli AC/DC storicamente non sono sperimentatori, non sono pionieri o temerari cercatori d’oro nel mondo della musica ma, nonostante questo, sono e rimangono delle leggende inscalfibili che cavalcano trionfalmente una lunga carriera che, iniziata nel 1973 allorquando i Genesis pubblicavano il capolavoro Selling England By The Pound o i Pink Floyd The Dark Side Of The Moon o ancora i New York Dolls il loro omonimo album, si è caratterizzata per l’adesione a un genere, a una sonorità, a degli stilemi che hanno avuto la forza di resistere in modo conservativo e confortevole alle picconate del tempo nonostante, come dimostrano Flick Of The Switch e Fly On The Wall, anche loro abbiano vissuto dei momenti di calo artistico. Nonostante questa tendenza a mantenere ferreo il legame con la tradizione e il genere sono riusciti, in alcuni casi, a far fiorire, come detto prima, degli album che rimarranno nella storia come T.N.T., Highway To Hell, Back In Black e The Razors Edge, ma le fioriture non sono eterne ed eteree, perché necessitano di nuova e rinnovata linfa per poter offrire nuovamente qualcosa che merita, nell’immaginario della bellezza, di essere ricordato. Così, dopo sei anni, gli AC/DC danno alla luce Power Up che, probabilmente dopo un alacre lavoro, non sarà ricordato come il loro album più originale (si ascolti per esempio l’attacco di Core Red) e inconsueto trattandosi di un disco che si pone per lo più come una tendenza all’omologazione assoluta ai dettami da loro stessi stabiliti nel genere. Quindi, come detto in apertura, nulla è cambiato: sono trascorsi nove lustri e ben 16 album per ascoltare quello che ormai dalla band australiana cerimonialmente ci si aspetta. Allora a coloro che sempre e comunque si preparano per gustare un po’ di musica le pulsioni si affievoliscono, ma in fondo, esattamente come con i ricordi che un tempo resero felici, romanticamente gli AC/DC è duro abbandonarli, come se si vivessero in prima persona le bellissime vicende narrate da Dino Buzzati dove l’amore tende a perdersi in un labirinto. Quindi si continua a gustare la favola della band australiana volendoci credere sempre e per sempre, nonostante una verità che non si ha il coraggio di pronunciare.

Power Up rappresenta il manifesto degli AC/DC, manifesto con pennellate di Hard Rock, ma questa volta con profonde venature di Blues, tipo Shot In The Dark, a tal punto che in certi momenti, durante l’ascolto, l’associazione di idee con Eugene “The Talent Boy” protagonista di Missisipi Adventure è quasi naturale e immediata. La realizzazione dei 12 brani, a opera di Angus Young (chitarra), Brian Johnson (voce), Stevie Young (chitarra ritmica), Phil Rudd (batteria) e Cliff Williams (basso) fa leva sullo stile, sul sound e sulla potenza che li hanno resi inconfondibili. Proprio per continuare sul solco già tracciato da tempo incalcolabile hanno richiamato alla produzione la loro vecchia conoscenza, e di sicura fattura, Brendan O’Brien che nel frattempo non ha disdegnato una collaborazione perfino con Zucchero, oltre a tante altre delle quali qualcuna sarà ricordata nel corso della lettura.

Power Up arriva subito a destinazione essendo un disco semplice, suonato con quella semplicità che si traduce in un ascolto piacevole anche senza porgervi molta attenzione. Questo senso di piacere e leggerezza, che avvicinano il lavoro a un ambito più Rock che Hard Rock, è enfatizzato dalle belle melodie della voce, come in Trough The Mists Of Time, e dai cori spesso in sottofondo, basti ascoltare Shot In The Dark e Kick You When You’re Down per averne un fulgido esempio.

Emerge, come caratteristica fondante degli AC/DC, la capacità di creare semplici melodie, ma capaci di imprimersi subito nella mente e assolutamente idonee da ascoltare quando si vuol suonare la carica, prova di questo è il brano Demon Fire, che già dal titolo e dall’intro fa chiaramente comprendere che sarà una canzone tirata e in grado di galvanizzare l’ascoltatore.

Infatti l’intro canterà così He loves to drive ‘em crazy / With his evil lips / Great guns are blazin’ / What a deadly trip” e continuerà sulla stessa onda lunga di forza nel pre-chorus quando le parole utilizzate saranno queste “Like a devil on a deadline / Gonna send you down”.

Che il disco avesse un riferimento demoniaco, ovviamente con tutte le mediazioni del caso, lo si percepisce subito guardando la copertina dove un rosso acceso, contornato da un nero edulcorato solo dal colore della scritta AC/DC, riconduce subito nel mondo del Diavolo (come il titolo evoca); mondo tipicamente rosso come la cultura del Protestantesimo ha poi fatto affermare allorquando questo colore non rappresentava più il sangue di Cristo, ma la follia dell’uomo e poi il lusso e il peccato.

Dall’ascolto attento del disco emerge un elemento curioso, cioè il contributo che hanno avuto i The Clash nella fase compositiva di Power Up, infatti non è peregrino notare una certa somiglianza tra i brani Rejecton e Kick You When You’re Down con la famosissima Should I Stay Or Should I Go, datata 1981 (ma pubblicata nel 1982), della band inglese.

L’album si apre con Realize, un brano dall’attacco potente e deciso, l’attacco che tutti vorrebbero ascoltare in un nuovo e attesissimo album degli AC/DC. Il basso scandisce gli ottavi sulle toniche per Cliff Williams con un groove davvero d’altri tempi. Il riff iniziale e il chorus sono prorompenti, le chitarre graffiano in modo encomiabile e, come accennato, sono indovinati i cori centrali. Le evoluzioni del brano sono nel loro classico stile e le modulazioni sul solo vanno un tono sopra. Semplicemente un biglietto da visita senza fronzoli e di indubbia fattura.

Qualche bpm in meno per la successiva Rejection dove è tutto al proprio posto: groove potente e cadenzato, apertura nella parte centrale e riff in battere anche durante il solo.

Preceduto dal video promozionale pubblicato il 7 ottobre (e successivamente il 26 ottobre da un videoclip alquanto patinato), Shot In The Dark non tradisce le aspettative. Il titolo è altisonante e poi una cascata di chitarre acerbe e sudice a confezionare questo brano. Qui Brian Johnson appare in gran spolvero, aiutato anche dal mixing e dalle backing vocals. Lui ha ragione sostenendo che nessuno fa musica come questa (per ovvie ragioni) e come singolo questo può essere il brano più rappresentativo dell’intero platter.

La produzione è cristallina a cura, come detto, di Brendan O’Brien, autore (tra i tanti) di capolavori come Devils & Dust di Bruce Springsteen o Dogman dei King’s X e che ha firmato gli ultimi lavori della band. Mike Fraser, dal canto suo, dietro al banco è stato davvero capace di creare quella tridimensionalità al suono da illuderci di essere lì con loro in sala di registrazione.

L’intro di Through The Mists Of Time è geniale, Phil Rudd suona in controtempo e il brano decolla subito dopo le prime 8 battute. Il riff è bellissimo e il chorus da brivido; a tratti ricorda alcune sfavillanti idee di quel piccolo gioiello che fu Living Loud, disco-progetto del 2003 con Jimmy Barnes alla voce (un personaggio dal timbro a caso…) e con una line-up da favola, tra cui Steve Morse alla sei corde.

Bello lo start solo voce e chitarra per Kick You When You’re Down, ma i cori da stadio non tardano ad arrivare e la chitarra di Angus Young sforna riff a ripetizione con una coerenza e un senso della canzone che farebbero impallidire chiunque e anche il solo non tradisce il nome che porta.

Dopo di questa si giunge ad ascoltare Witch’s Spell che scorre velocemente in modo piacevole.

Per l’intro di Demon Fire si apprezzano sonorità a metà strada tra i primi Deep Purple e gli ZZ Top, soprattutto per il sound delle chitarre e per l’evoluzione strumentale, successivamente si passa al sound australiano con un chorus davvero memorabile. Per i nostalgici di fine anni ‘80 invece sarà facile associare il bridge a quello di Kittens Got Claws di Mons. David Coverdale & Company (leggasi Slip Of The Tongue del 1989). La carica del combo è davvero invidiabile e il brano sale di un tono per preparare il solo di Angus Young, impreziosito da break di batteria da manuale.

Wild Reputation gode di un riff diviso in Left & Right (e qui una nota di merito va attribuita al pur sempre grande Stevie Young alle chitarre ritmiche). C’è del “marcio” in questa song: basso ipnotico da Far West a enfatizzare tematiche di rapine, banche e cavalli.

No Man’s Land riserva un intro classico in mid tempo con i contorni alla Gibson SG che sono puntualissimi, ma il brano ha la valenza di un riempitivo all’interno del disco. Appare ben strutturato, ma non brilla sul lato emozionale. Anche il chorus è un classico in struttura domanda-risposta tra Brian Johnson e il resto della band.

Discorso diverso per Systems Down. Lo spread delle chitarre (inteso come effetto in termini di spazialità) la fa da padrone e in un brano del genere c’è solo da godere del grande wall of sound e della mastodontica opera del già citato Mike Fraser in fase di mix. Tornando al brano in sé si tratta di 3:12 minuti di puro Hard Rock, di vero concentrato di tutti quelli che sono gli elementi caratteristici del suono targato Young e soci.

Money Shot marca lo stesso numero di bpm e sembra un po’ una naturale estensione della precedente e qui gli AC/DC si mantengono nella loro ideale comfort zone.

Il disco si chiude con Code Red: primo riff in La Maggiore e secondo riff (sulla dominante) in scala blues di Mi minore come da canone (così come la si studia il primo giorno a lezione di chitarra, modalità ascendente). Il chorus un po’ sottotono, ma i minuti scorrono velocissimi, a sottolineare quella che è la leggerezza di questo disco in fase di ascolto. Non ci vorrà molto affinché i fans possano metabolizzare quest’opera in una manciata di ascolti.

Si conclude così l’ascolto di Power Up, un disco assolutamente in linea con quello che gli AC/DC sono stati in grado di edificare nel corso della loro lunghissima carriera. Il disco si ascolta con piacere e rimane encomiabile la coerenza e la carica che il combo riesce ancora ad esprimere. Si nota, a margine, una curiosità del disco: non è presente nessuna title track. Da segnalare un must in uscita per i collezionisti, la stratosferica (è proprio il caso di dirlo) Limited Edition Deluxe Lightbox.

Pasquale Ninni e Leonardo Ascatigno

Ultimi album di AC/DC

Band: AC/DC
Genere: Hard Rock 
Anno: 2020
70
Band: AC/DC
Genere: Hard Rock 
Anno: 2014
69
Band: AC/DC
Genere:
Anno: 1983
80
Band: AC/DC
Genere: Hard Rock 
Anno: 2008
81
Band: AC/DC
Genere: Hard Rock 
Anno: 2000
70
Band: AC/DC
Genere:
Anno: 2005
83
Band: AC/DC
Genere:
Anno: 1984
71