Recensione: Prayers to Oblivion
I Sarcoptes tornano dalle tenebre con il secondogenito “Prayers to Oblivion“. Un concept, poiché ognuna delle canzoni del disco segue una serie interconnessa di tragedie storiche in rigoroso ordine cronologico: dagli eventi della Grande Guerra sino a quelli del conflitto con il Vietnam.
Un concept imbastito su ben tre lunghe suite, intervallate da due brani della lunghezza classica. Un’idea più che buona per movimentare l’andamento dell’opera, evitando con ciò che si possano verificare appiattimenti della verve posseduta da ciascun elemento.
Il duo statunitense, peraltro, oltre che con i testi se la cava ottimamente anche con la musica. Basata su un miscuglio di thrash (poco) e black (tanto), condito con tanto di orchestrazioni, la musica stessa mostra i caratteri dell’unitarietà. Malgrado la folta concorrenza, Garrett Garvey (voce e batteria) e i suo compagno Sean Zimmerman (chitarra, basso e tastiere), hanno saputo dar vita a uno stile che vive di vita propria, ben definito entro dettami che, in sequenza, definiscono in ogni dettaglio un sound che rimanda immediatamente, o quasi, alla coppia di Sacramento.
Detto questo, “Prayers to Oblivion” non passerà alla Storia per spiccata originalità, tuttavia solo dopo pochi ascolti rivela la sua natura intrinseca. Che, come una fiammata, marchia indelebilmente e senza possibilità di duplicato similare colui che ne viene a contatto.
La matrice del suono del disco è, come più su accennato, composta da un agglomerato che contiene sia thrash, sia black. I Sarcoptes, però, non commettono il classico errore di voler tornare indietro nel tempo. Anzi. Utilizzano l’esperienza pregressa per generare canzoni dal cuore moderno, che sprizzano fresca energia vitale da ogni poro, tagliente come la lama di un bisturi. La presenza della melodia, poi, arricchisce il tutto, regalando istanti di pura magia quando si alza la qualità della composizione (‘Trenches’).
L’acuta chitarra di Zimmerman cuce riff estremamente variegati ma semplici da assimilare per un immaginario headbanging da staccare le vertebre del collo. Riff conditi da orpelli armonici per nulla scontati, così come da frequenti assoli al fulmicotone. Riff che sanno di thrashy, come già evidenziato, senza però scivolare nella scopiazzatura di segmenti trentennali. In taluni momento la musica classica prende il sopravvento come in ‘Spanish Flu’, violentissimo capitolo ove viene scardinato il terrificante portale dei blast-beats.
Blast-beats che aprono la seconda suite in ordine numerico e cioè ‘Dead Silence‘. Il numero di BPM è esorbitante, con che la trance da hyper-speed travolge tutto e tutti. Sempre con ordine, questo è bene sottolinearlo. Nonostante la… pienezza della musica, tutto e facilmente intelligibile. Merito, a parere di chi scrive, del talento posseduto dai Nostri, che spazia lucente dalla fase del songwriting a quella dell’esecuzione. Grazie, anche, alla produzione regalata da una label in iperbolica ascesa come la super-specializzata Transcending Obscurity Records.
I ragazzi californiani mostrano anche una notevole abilità nell’erogazione costante di una poderosa energia sonora travolgente, a tratti annichilente. Che non mostra cedimenti, tentennamenti e interruzioni.
Stesso discorso, ma non poteva essere altrimenti, per ‘Tet’, in cui campeggiano le aspre e forsennate harsh vocals di Garvey, vero trascinatore come si conviene a un cantante con i fiocchi. E ‘Massacre at My Lai’, in cui, improvvisamente, il ritmo cala vertiginosamente sino a quello del doom. Del resto, la morte campeggia fiera, sulle vicende narrate dai Sarcoptes, veri inni alla stupidità e crudeltà umana.
“Prayers to Oblivion” è, in definitiva, un disco da tenere in debita considerazione, se si vuole passare un’oretta di musica seria, trascinante, avvolgente e, ultimo ma non ultimo, devastante.
Daniele “dani66” D’Adamo