Recensione: Predator
E dopo 7 studio album, una manciata di EP, un paio di episodi live, svariate raccolte, ma soprattutto 40 anni di onorata carriera, tornano a farsi sentire anche gli scozzesi Holocaust. Passati attraverso un rapido e quasi indolore mutamento di pelle (la fase Hologram di Ed Dudley), e sperimentato anche un po’ di progressive a partire dalla fine degli ’80, i ragazzi di Edimburgo, oramai con qualche capello bianco, fanno quadrato attorno a John Mortimer, unico sopravvissuto della prima line-up. Oggi gli Holocaust sono ridotti all’essenziale, un trio di incalliti metallers piuttosto fedeli all’ortodossia di un sound che in alcun modo intende prescindere dal più puro e semplice heavy metal.
Essenziali in tutto e per tutto, a cominciare da una scaletta sotto le 10 tracce, alla vecchia maniera dei vinili di un tempo, quando una mezzoretta abbondante era più che sufficiente per stabilire se una band aveva lavorato bene o no. Ora un album sotto i 60 minuti, senza neppure intro e outro magari, è da disgraziati (o da inguaribili punk nostalgici). Ma bando alle ciance, gli Holocaust tempo da perdere non ne hanno e cucinano un lotto di composizioni che ben dispongono l’ascoltatore. La doppietta d’attacco, “Predator” e “Expander” è sublime, né si può parlar male di “Lady Babalon” e “Shine Out”. Le altre canzoni, pur gradevoli, sono a mio gusto e parere un gradino sotto il poker stellato che ho citato. “Observer One” è una strumentale posta a metà scaletta esatta e si presta a pietra angolare per l’analisi dell’intero lavoro. Il tallone d’Achille degli Holocaust risulta infatti essere una certa staticità delle composizioni, a cui contribuisce come azionista di maggioranza Scott Wallace con il suo drumming legnoso e privo di fantasia. Non che gli Holocaust debbano prendere a modello i Dream Theater, ci mancherebbe, ma le pur trascinanti linee di chitarra sbattono come acqua sugli scogli quando devono adagiarsi sulla sezione ritmica.
Drums patterns quasi in chiave AC/DC, privi di sussulti o raccordi minimamente più dinamici che permettano al sound di decollare ed avere più ariosità. D’accordo il clima complessivamente oscuro e intensamente metal di “Predator”, d’accordo il retaggio punk che la NWOBHM ha sempre onorato, ma lo scandire telegrafico e fin troppo prevedibile delle pelli di Wallace, sostanzialmente limitato a rullante, cassa e piatto d’accompagnamento (charlie o ride che sia), senza grande personalità, mette del piombo a pezzi che nascono discreti e potrebbero regalare molto di più. Mortimer ha buone idee anche in termini di melodie vocali, lo dimostrano la title track o “Shine Out”. “Expander” è adrenalina fosforescente, tuttavia, dovendo soppesare in modo globale l’album, si esce solo parzialmente soddisfatti. I vecchietti se la giocano bene, pur portandosi 40 anni di militanza borchiata sul groppone, ci sanno fare, hanno esperienza da vendere e sono tutt’altro che bolliti. Personalmente lavorerei di più sulle ritmiche; comprendo la volontà di attestarsi su linee chiare, nette e ben scandite, ma il sound, nella sua scarna semplicità, deve comunque risultare accattivante ed appetibile anche per un pubblico che non è più quello dei sensazionali 45 giri che Albione sfornava a ritmo industriale, tra la fine dei ’70 e i primi ’80, quando la NWOBHM imperversava come il “fenomeno nuovo”.
Se la mia disamina può sembrare troppo severa, ribadisco una volta di più che il giudizio su “Predator” è senz’altro positivo, e lo sarebbe potuto essere ulteriormente se l’apporto di ogni singolo strumento fosse stato curato con più specificità. Un’altra colonna del metal anglosassone è riemersa dalle sabbie del tempo per farsi largo nella modernità, e non a caso la informazioni promozionali fatte circolare dalla Sleaszy Rider a corredo del disco insistono parecchio sulla impressionante quantità di gruppi che hanno coverizzato materiale degli Holocaust, evidentemente seminali all’interno della scena. Tolta la ruggine, (ri)scaldati i muscoli, adesso è tempo di provare a mirare al bersaglio grosso.
Marco Tripodi