Recensione: Prehensile Tales

Di Roberto Gelmi - 30 Maggio 2020 - 12:00

Secondo album in meno di due anni per il gruppo nato da una costola degli Spock’s Beard e guidato dal produttore e tastierista John Boegehold (già collaboratore di lungo corso delle “barbe”).

I Pattern-seeking Animals propongono ai fan un’altra ora di prog. moderno e catchy, il tutto confezionato nei minimi dettagli, incluso un artwork dall’indubbia originalità (opera di un artista polacco) e un titolo nato da un non sense di Dave Meros, bassista a quanto pare immerso fino in fondo nella parte del witty progster.

Dai sei brani che ci apprestiamo a commentare non dobbiamo quindi aspettarci chissà quali sperimentazioni, ma semplicemente un’ora di musica ben concepita e utile per convivere con la vita in questo periodo di pandemia. Il quartetto statunitense, infatti, pur restando fedele al proprio carattere musicale, ha aggiunto al ventaglio sonoro alcuni arrangiamenti di violino, flauto, tromba, violoncello, sassofono e pedal steel guitar. Questa scelta riesce in qualche modo a svecchiare il solito sound proggish che sembra autoperpetuarsi da decenni a questa parte.

L’opener “Raining Hard in Heaven” incomincia con una linea di basso ruffiana e un procedere ritmato quasi funky. Negli otto minuti del brano emergono influssi riconducibili a band come Yes, Procul Harum, The Flower Kings, The Tangent e affini, ma il pregio del sound resta la sua scorrevolezza mutevole che appaga l’ascoltatore (quale lactea ubertas musicale) conducendolo alla fine dell’itinerario d’apertura del disco. Niente da dire, la prima impressione conferma quanto di buono dimostrato dall’album di debutto, i PSA sono una band difficile da odiare.

Here in my autumn” ammicca con qualche rimando folkish al suo avvio e siamo di nuovo alle prese con un paradiso di sintetizzatori e la voce cristallina di Leonard. Viene naturale paragonare la band ai cugini Flying Colors, entrambi gruppi prog. con una spiccata propensione pop. Il basso pulsante di Meros è inimitabile e concorre al flavour vintage della composizione caleidoscopica che nella sua ricercatezza muta pelle più volte prima di terminare in modo fatato. A tratti più oscura, invece, la breve “Elegant Vampires”, condensato del lato meno easy-listening del gruppo americano. In un album da 60 minuti ci può stare una sorta di filler di questo tipo… Prima delle con due suite finali c’è spazio per l’orientaleggiante “Why Don’t We Run?”, pezzo con il ritornello più memorabile del platter e con un buon lavoro di percussioni; la traccia include inoltre (scelta azzardata ma vincente) un momento latino con tanto di trombe da corrida.

Lifeboat e “Soon but not today” da sole occupano mezzora di minutaggio. “Lifeboat” naviga in acque psichedeliche, se la vede con bonacce improvvise e passa per alcune asprezze calcolate, ma in definitiva porta l’equipaggio a destinazione lasciandolo soddisfatto del tempo impiegato lungo il tragitto compiuto sul pentagramma. “Soon but not today” è la degna conclusione dell’album. La parte ritmica iniziale è sugli scudi e regala istanti di sollazzo puro con il suo groove trascinante. All’opposto la lunga sezione centrale è una sorta di ballad nidificata all’interno della suite che si conclude con altre note di tromba e un rullante marziale.

Nient’altro d’aggiungere, Prehensile Tales è un bel disco, i testi percorrono una vasta gamma di temi, partendo dalle seconde occasioni che ci dà la vita, arrivando a vampiri, naufragi e la scoperta della mortalità; il prog. rock suonato dal quartetto americano è frutto dell’esperienza pluridecennale di musicisti esperti e la produzione non fa una grinza. Pensare di vedere i PSA dal vivo a emergenza finita in Italia (ovviamente con almeno un paio di rincalzi per evitare l’uso di basi preregistrate) è un’idea che potrebbe interessare un numero di ascoltatori nemmeno così ristretto…

 

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