Recensione: Prelude To Descent
Tornano, a distanza di ben quattro anni dall’uscita di “Until We Are Dead”, gli Outshine, band svedese capitanata dal chitarrista e compositore Jimmy Norberg e dedita, sino ad ora, ad un gothic rock/metal melodico non troppo distante da quanto proposto da gruppi come H.I.M., 69 Eyes e ultimi Sentenced. La precisazione “temporale” è d’obbligo, giacché con l’ingresso del nuovo cantante, Micke Holm, in sostituzione del dimissionario Erlend Jegstad, il sound degli Outshine ha subito delle radicali trasformazioni andando ad abbracciare tonalità più oscure e rugginose e inglobando ulteriori influenze di stampo alternative rock. Rispetto ai tempi di “Bad Things Always End Bad” o di “Until We Are Dead” le chitarre si sono fatte, dunque, più spesse e compatte e il mood generale delle composizioni più oscuro e pesante, andando a battere territori su cui la voce grave e rugginosa del nuovo entrato in squadra riesce indubbiamente ad esprimersi al meglio.
La nuova direzione, in termini di sonorità, si palesa già dall’intro “Prelude To Descent II”: una sorta di nenia ossessiva, inquietante e vagamente industrialoide dominata da synth di memoria addirittura pinkfloydiana, mentre con “Working Class Hero” si entra davvero nel vivo a suon di riff possenti e minacciosi (stemperati dalle incursioni di tastiera) e si ha modo di iniziare a fare la bocca al nuovo approccio melodico degli Outshine, decisamente differente rispetto al passato.
“Addiction” è il primo singolo, una gothic rock/metal song grigia eppur melodica (a modo suo), particolare ma tutto sommato piacevole e riuscita, così come le successive “Here Now” e “(In You I Met Me) Caroline”, due brani in cui l’hard melodico, il goth metal e le chitarre mutuate da certo grunge trovano un equilibrio interessante e fnunzionale. Equilibrio che pare, al contrario, venir un po’ perso di vista in “I Was Nothing”, “Falling” e “My Definition”, pezzi non privi di spunti d’interesse ma nel contempo penalizzati da melodie non del tutto riuscite. Risollevano (e di parecchio) il giudizio complessivo la rockeggiante “I Still Won’t Leave”, dinamica ed indovinata, e la conclusiva “You Do Bad Things To Feel Alive”, di nuovo più puramente gothic, sostenuta da vocals efficaci sulle quali la particolare ugola di Micke Holm trova buone modalità di espressione.
Luci ed ombre, dunque, con l’impressione che se, da un lato, il cambio al microfono abbia certamente contribuito a mutare anche le coordinate sonore battute dagli Outshine, Norberg e compagnia non sempre riescano a trarre il massimo da un impasto sonoro altresì interessante. Probabilmente un album di passaggio, più che un punto d’arrivo, tutt’altro che spiacevole ma ancora lontano dal trovare una propria cifra stilistica realmente di pregio.
Stefano Burini
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