Recensione: Pretending 2 Run
Tornano i Tiles, dopo otto anni dal loro quinto studio album, e lo fanno in pompa magna, dopo aver firmato per Audioglobe. La band di Detroit, nel bene e nel male, resta impressa nella memoria dei fan, vuoi perché erede di certi Rush, vuoi per la voce inconfondibile di Paul Rarick, vuoi, infine, per alcuni bei pezzi scritti negli anni Novanta (chi ha detto “Static”?)
Per rilancarsi, i quattro statunitensi si affidano al produttore Terry Brown (il guru dietro agli storici album del trio canadese) propongono un doppio concept album con un infinito elenco di ospiti ragguardevoli, che occupano ben quattro pagine del booklet. Il sound, tuttavia, è rimasto invariato: chitarre con delay, inserti acustici, basso pulsante, poche tastiere e la già citata voce suadente e monotematica di Rarick (non ci avete mai pensato? sembra quella di Arjen Lucassen…). Chiara, quindi, la volontà della band di voler proseguire nel tracciato sonoro che in passato l’ha vista aprire concerti anche per gruppi importanti come i Dream Theater. L’artwork, opera del sempre geniale Hugh Syme, è tipicamente prog. e lega il titolo a un immagine surreale che ricorda il paradosso di “Achille e la tartaruga”. Certo, la copertina di Present of mind era un’altra cosa, si ficcava in testa subito! Il carapace farà capolino nel booklet insieme a un uomo in bombetta su velocipede, un binomio che gioca sul concetto di durata temporale.
Tutto a regola d’arte, siamo dunque di fronte al capolavoro inaspettato di una band che si dava ormai per dispersa nel limbo delle meteore prog? In realtà a differenza di quanto dimostrato dai cugini redeunti Enchant, i Tiles hanno realizzato un platter discreto ma nulla più. Pretending 2 Run racconta la storia di un uomo ormai disilluso dopo un tradimento. Una voce narrante alterna citazioni in francese da Il piccolo principe e alcune di Savonarolo (sic), un binomio che noi italiani suona a dir poco impensabile. Li lega probabilmente, così come per la tartaruga e il velocipede, una questione comune affrontata nel concept. In questo caso il rapporto con il trascendente: il piccolo alieno riflette sulle stelle, Girolamo finisce bruciato dal suo stesso ardore profetico.
Ora tocca alla musica.
La title-track, nonché opener, ha un avvio in sordina con suoni ondivaghi, una voce francese che recita parole di Savonarola e che ritroveremo nel prosieguo (e ricorda atmosfere a firma O.S.I.). «There’s no place to run / from uncertainty» recitano i testi… bisogna aspettare la metà del brano per sentire i veri Tiles all’opera. Chris Herin macina un assolo notevole, Mark Evans alle pelli è compatto e sicuro di sé, Rarick pulitissimo. “Shelter in place” è uno dei pezzi più duri del concept, Evans è il vero mattatore, sempre un piacere sentire i suoi fill. Ma anche la successiva “Stonewall” viaggia su ritmi sostenuti, questa volta, però, con una strizzata d’occhio ai Muse e i controtempi scanzonati di Mr. Mike Portnoy. Non mancano dei break distensivi, il refrain è atipico e ficcante.
La misteriosa voce francese recita un aforisma di Saint-Exupéry per introdurre la strumentale “Voir dir” (dicere verum), quattro minuti di insania prog. che richiamano da vicino i fasti di un brano come “Ballad of the Sacred Cows”. Nessun ospite in questo caso, tutta farina del sacco Tiles. “Drops of rain” è introdotta da un giro di basso avvolgente, le chitarre si dimidiano tra elettriche e semiacustiche. La trama arriva a uno dei suoi momenti clou, con una rivelazione per il protagonista: «The family portrait slipped to the floor»… Bella trovata quella di associare tale epifania con una pioggia catartica. Le dissonanza della 6-corde stanno a pennello, peccato per la solita fissità vocale di Rarick.
Prima suite in scaletta, “Taken by surprise” inizia con un intro ovattato. La presenza di Mike Stern (Miles Davis, Blood, Sweat & Tears) e Adam Holzman (Steven Wilson Band) arricchiscono un brano fulminante, con un groove invidiabile nella prima parte di minutaggio. I testi citano pure Salinger! Il cd termina in pianissimo con un pezzo a cappella, “Refugium”, suggestivo ma un filo fuori contesto (nonostante il concept), e la bella “Small fire burning” (nel booklet troviamo il velocipede correre sul Sole). Tutto termina con un carillon.
Dopo i primi 45 minuti possiamo dire di essere rimasti confortati ma non colpiti dalla musica dei Tiles: tutto abbastanza prevedibile e una certa monotematicità ha giocato a sfavore. Vediamo se il secondo disco risolleverà le sorti. “Midwinter” si rivela un pezzo suggestivo, vengono in mente i Dead Soul Tribe, grazie all’oncia fatata di Ian Anderson (Jethro Tull) e la presenza di violini. “Weightless” è una composizione da nove minuti, solare e rushiana: sax, percussioni, banjo e shaker tipico dei Tiles. Nel booklet ritroviamo le mongolfiere degli ultimi Flying Colors, il cui moniker è citato, a mo’ di tributo, anche nei testi. Seguono due pezzi a firma del solo Herin. Un aut aut doloroso è al centro di “Friend or Foe” (Amico o nemico?), il tempo è rivelatore («Time unravels silent lies»). Le linee vocali eteree ricordano quelle dei Frost, ma il brano pecca di prolissità e prevedibilità.
“Battle weary” è un pezzo anodino: un basso svogliato fa da leitmotiv e alcune note di tromba in lontananza compaiono in un finale mesto. Ritroviamo il gregoriano di “Refugium” nel breve intermezzo “Meditatio”, la voce narrante recita ancora Il piccolo principe circa la natura delle stelle: tutto molto raffinato, peccato seguano due minuti di musica elettronica che ricorda i NOMACS theateriani! “The Disappearing Floor” ripropone il trademark dei Tiles con alcune seconde voci, leggermente sopra le righe. A metà brano il drumwork si fa indiavolato (al min. 3:13 è un vero delirio), seguono minuti strumentali esaltanti, complice di nuovo Mike Stern. Tutto rientra nei ranghi con “Fait Accompli”: i testi continuano i fil rouge delle stelle e del destino. Interessante il dialogo tra violini e synth, à la Ayreon, si poteva però osare di più e valorizzare meglio la presenza della coppia padre-figlio portnoyana.
Siamo in chiusura d’album. Resta praticamente un solo brano e quattro brevi composizioni, ma evangelicamente il vino buono resta alla fine. Dopo “Pretending to run reprise 1”, infatti, “Uneasy Truce” è una strumentale che lascia il segno. Ascoltare per credere, bastano i primi secondi sincopati di batteria. Campane, invece, in “Pretending to run reprise 2”, i cui testi si chiudono con un calzante «Per aspera ad astra». Chiude le danze, infine, “Backsliding”, tre minuti di refrigerio semiacustico con inserti di oboe, ma testi poco speranzosi, l’ultima parola, infatti, è un poco confortante “night”.
Per tirare le somme, Pretending 2 Run è un album discreto, ma non un capolavoro. I Tiles ce l’hanno messa tutta, ma dimostrano di non avere le risorse necessarie per inscenare un concept così ambizioso. Viene spontaneo il confronto con The Astonishing: i DT si sono salvati grazie al ventaglio sonoro messo in campo che, insperatamente, ha rivelato lati inediti della band americana, pur minimizzandone altri (primo su tutti quello metal). Nel caso del quartetto di Detroit, invece, il sound è rimasto invariato e un minutaggio così lungo ha penalizzato la proposta musicale. Peccato, perché tutto è curato (passi il refuso sul nome di Savonarola), le citazioni di Saint-Exupéry, l’artwork e i testi. Siamo contenti che i Tiles siano tornati, però dopo otto anni era lecito aspettarsi qualcosa in più da parte loro.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)