Recensione: Prey

Di Filippo Tonzig - 10 Novembre 2003 - 0:00
Prey
Band: Tiamat
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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63

Prey è il titolo dell’ultima fatica degli Svedesi Tiamat, band che ha regalato in passato ai fans del Doom/Gothic una serie di capolavori assoluti tra cui Astral Sleep, Clouds, Wildhoney e A Deeper Kind of Slumber.
Il singer, nonché chitarrista, nonché leader Johan Edlund è qui affiancato dallo storico membro Thomas Petersson alla chitarra, a riformare una coppia che abbiamo avuto modo di apprezzare in quasi tutti i lavori migliori di questi autentici veterani della musica oscura, che hanno saputo far evolvere il death sinfonico dei loro primi dischi ammorbidendosi alquanto e aprendosi spesso alla sperimentazione elettronica, con risultati che hanno causato notevoli divergenze tra i fan.
Analizziamo il disco traccia per traccia; Cain, il brano di apertura, sembra quasi una citazione di Widhoney… suoni della natura, arpeggio in clean immediatamente seguito dai consueti chitarroni lenti e maestosi… la voce di Johan ha perso ormai da tempo le connotazioni estreme dei primi tempi, sostituendole con tonalità pulite e basse e le ipnotiche linee melodiche a cui ormai, da tre dischi a questa parte, siamo abituati. Il pezzo è molto valido, sulla linea delle migliori tra le ultime cose scritte dagli Svedesi, e fa sperare benissimo.
Dopo il bridge strumentale Ten Thousands Tentacle, piuttosto inutile a mio modo di vedere, passiamo alla terza traccia, Wings of Heaven. Qui la somiglianza che percepisco è a certe cose di A Deeper Kind of Slumber; si tratta di una song molto cadenzata, con arpeggi acustici e ritornello “a piene corde”… niente di speciale a dire la verità, un eccessivo uso della ripetizione e un tema centrale non proprio ispiratissimo generano ben presto noia, specialmente ad ascolti ripetuti.
Love in Chains, la quarta traccia, non si discosta particolarmente da quanto fin qui detto… sembra che la band non riesca a ritrovare la qualità dell’opener, si ha quasi l’impressione che Edlund si trascini senza troppa convinzione su quelli che sono tappeti di chitarra stoppata non particolarmente originali. Anche i testi, le consuete e morbose fantasie amore/morte, sanno di già ascoltato. Un bell’assolo, molto classico a dire il vero, non è purtroppo sufficiente a migliorare la situazione.
Segue Divided, una canzone d’amore lenta e malinconica nella quale fanno capolino le female vocals di Sonja Brandt, non peraltro imperdibili. Il brano è lontano anni luce dal mondo Metal, lo definirei quasi pop, anche se devo riconoscere che il feeling e l’ispirazione ci sono, grazie anche al buon lavoro delle tastiere che arricchiscono il suono in modo sapiente.
Il pezzo successivo, Carry Your Cross and I’ll Carry Mine, è a mio giudizio il punto più basso di tutto il disco. Lo spazio lasciato alla cantante ospite è spropositato se teniamo conto delle sue scarse capacità e della sua espressività prossima allo zero; la melodia è scontata e, se vi sembrerà banale al primo ascolto, vi garantisco che proseguendo diviene quasi fastidiosa. Non ci siamo.
Secondo strumentale di collegamento, Triple Cross, piuttosto valido, che sfuma prima di introdurre l’ottava traccia, Light in Extension… oh, un riff quasi veloce… che si siano svegliati? Neanche troppo, diciamo che si tratta di un brano discreto ma niente più, tra l’altro il filtro sulla voce di Johan non aggiunge proprio niente. Proseguiamo.
Prey, la title track, nasce con un arpeggio lento sul quale Edlund sussurra un lamento di creatura reietta che è quasi una dichiarazione di non appartenenza al mondo dei vivi, una promessa di devozione alla solitudine e all’oscurità. Pezzo breve e piuttosto coinvolgente, anche se poggia su una base musicale non ricchissima di idee.
E’ il turno dell’ultimo strumentale, The Garden of Heathen, anche questo non male, sulla cui melodia si inserisce l’inizio dell’undicesima traccia, Clovenhoof. Notevole la voce bassissima del singer che si muove a proprio agio su melodie inconsuete per la band in quanto piuttosto “positive”… anche qui sconfiniamo nel pop, si tratta di un brano che alla radio potrebbe anche passare senza dare troppo nell’occhio… nel complesso piacevole, anche se temo che l’effetto sia dovuto in buona parte alla piattezza dei precedenti…
La penultima traccia, Nihil, è una delle più cadenzate, di nuovo appaiono i chitarroni alla Paradise Lost. Purtroppo l’ispirazione rasenta lo zero, come già in un paio di lavori precedenti degli Svedesi si ha l’impressione che un paio di brani siano stati buttati dentro per fare numero, non mi spiego altrimenti l’inserimento di questo, noioso fin dal primo ascolto e penalizzato ulteriormente da un testo non brutto in sè ma che, tutto sommato, sembra ripetersi lungo l’intera durata del disco.
Soffocando uno sbadiglio ci apprestiamo ad assaporare Pentagram, la traccia finale, il cui testo è nientemeno che tratto dagli scritti di Aleister Crowley. Notevole, un fraseggio di chitarra molto settantiana ci porta ad addentrarci in un autentico microcosmo, una perla che brilla all’interno di un platter mediamente fiacco. Finalmente ritroviamo le atmosfere che hanno fatto grande questa band: si tratta di un pezzo assai cadenzato, come diversi altri in precedenza, qui però i frammenti combaciano molto meglio; voce, basso, e chitarra si muovono leggiadri su un azzeccatissimo tappeto quasi blues ad opera di un inaspettato organo; un suono di campane in lontananza e il disco è terminato.
Prey è contenuto in un bellissimo digipak che, oltre ad un artwork assai curato, contiene alcuni bonus consistenti in un documentario di un quarto d’ora che illustra la realizzazione del video della title track e di seguito il video medesimo, cinque wallpapers ed uno screensaver, il che fa salire di qualche punto la valutazione finale.
Non posso che dire di essere rimasto deluso e non poco. Sono da tanti anni un fan dei Tiamat ed ho apprezzato molto anche lavori dell’ultimo periodo, come A Deeper Kind of Slumber, che ai più non sono piaciuti; qui però non ci siamo, non bastano una bella song in apertura ed una in chiusura, il disco nel suo complesso è noioso e tristemente povero di contenuti. Non mi sento di consigliarne l’acquisto, tranne nel caso in cui siate die-hard fans come me. Per tutti gli altri, che ancora non li avessero, acquistate i classici della band, se poi volete anche questo prendetelo per ultimo.

Title track:
1) Cain
2) Ten Thousands Tentacles
3) Wings of Heaven
4) Love in Chains
5) Divided
6) Carry Your Cross and I’ll Carry Mine
7) Triple Cross
8) Light in Extension
9) Prey
10) The Garden of Heathen
11) Clovenhoof
12) Nihil
13) The Pentagram

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