Recensione: Prisoners
Questa recensione penso potrà risultare complicata per alcuni sostanziali motivi.
Innanzitutto l’album oggetto di questa analisi è datato 2012, e analizzare un album a posteriori porta con sé alcune considerazioni: lo si può analizzare con maggiore lucidità e oggettività, liberi dall’impatto emozionale dei primi ascolti, ma al contempo si potrebbe non riuscire a trasmettere per iscritto le emozioni e le sensazioni suscitate nei primi momenti dell’ascolto. Tuttavia, queste considerazioni vengono meno se l’album in questione viene scoperto recentemente, e quindi non ci sono ascolti pregressi / datati a influenzare in qualsivoglia maniera la valutazione.
Il secondo motivo è dato dal genere della band: i The Agonist fanno parte di quel filone che racchiude in maniera un po’ grossolana melodic death metal / metalcore / deathcore in un unico grande minestrone, generi spesso bistrattati dal metallaro medio (e non solo) perchè poco innovativi o perchè apparentemente hanno snaturato il vero metal. A ciò si aggiunga il fatto che il leader del gruppo sia una donzella, e avrete molte persone che si stanno dirigendo verso altri lidi musicali, più true.
La domanda allora è semplice: «perchè diavolo recensire un disco dimenticato e che potrebbe riscontrare zero risonanza?».
Perché si sta parlando di un signor disco, dimenticato nel marasma di uscite del genere senza motivo (o meglio, i motivi sono sopracitati) : perché con questo disco i The Agonist non suonano melodic death metal, metalcore o deathcore. Suonano metal, spaziando su vari fronti: ciò era stato in parte abbozzato con il precedente “Lullabies of the Dormant Mind”, dove però il minestrone di idee non era ben definito e ancora un pò troppo legato agli stilemi metalcore, risultando sì di buona fattura ma notevolmente migliorabile. E questo passo in avanti viene fatto con “Prisoners”.
Le idee vengono ridotte, si cerca di strutturare la canzone lungo un tema iniziale portante iniziale da cui sviluppare la canzone stessa, lasciandosi andare a camaleontiche variazioni che non sono repentine come nel precedente album (risultando troppo brevi e slegate l’una con l’altra), ma che vengono riprese durante la stessa (riprese, non ripetute). E di ciò ne traggono giovamento le tracce: nonostante sette canzoni su undici raggiungano e superino i cinque minuti (quando nel precedente non ce n’erano di eccedenti), nessuna di esse perde un briciolo di violenza e acquisiscono una loro identità, merito anche di una produzione finalmente all’altezza (il produttore è Christian Donaldson, che ha lavorato con Beyond Creation, Divinity e pure Cryptopsy).
Fare una recensione track-by-track non renderebbe giustizia a un album che fa della compattezza e del costante livello di qualità i suoi punti di forza, nonostante alcuni picchi e alcuni (pochi, fortunatamente) momenti di stanca. La band è oliata alla perfezione e ogni strumento sembra avere trovato la sua dimensione, insieme al proprio musicista. Il guitar-work è variegato e ispirato come non mai, si può azzardare che abbia un taglio progressive (ovviamente contestualizzato) che permette un’ampia varietà di soluzioni, tra cui alcuni soli veramente notevoli per tecnica ed emozione (l’opener-track ‘You’re Coming With Me’ e ‘Idemotor’, per fare degli esempi). La sezione ritmica sorregge alla perfezione le chitarre, e in alcune canzoni è proprio essa che detta il ritmo (la terremotante ‘Panophobia’, ‘Lonely Solipsist’ e la già citata opener-track), con una batteria che sa districarsi egregiamente tra passaggi più articolati e liberi a segmenti più tirati e cattivi, e un basso che sostiene il tutto senza però ritagliarsi chissà quali momenti.
So che state tutti aspettando che io parli di lei: perchè Alissa White-Gluz non può passare inosservata, volete per l’avvenenza, per la grinta e la carica che trasmette, per le sue doti canore (o per tutte e tre le cose?), e pure in quest’album si esibisce in una performance di alto livello. Se le tracce sono camaleontiche e multisfaccettate, il merito è pure del folletto blu, grazie alla sua abilità di spaziare tra growling graffianti, screaming acidissimi e un pulito che, seppur non trascendentale, riesce a dare quel quid in più alle tracce. Un highlight di ciò è dato dalla opener-track, uno degli episodi migliori dell’LP: dopo un archeggio di chitarra acustica, il blast-beat di McKay e lo screaming acido di Alissa ci travolgono in pieno, prima di rallentare il ritmo nelle strofe e preparare il terreno per un ritornello a dir poco coinvolgente grazie alle melodie vocali di Alissa stessa. Il brano è un crescendo continuo di violenza (non è un caso che il primo ritornello sia cantato in pulito, mentre nei due successivi le linee vocali sono in growl) fino a uno stupendo assolo finale di Marino. Le altre due tracce che formano l’ipotetica top tre dell’album sono il singolo ‘Panophobia’, un macigno travolgente: nella prima parte la White-Gluz è cattiva come non mai e McKay detta un ritmo forsennato alla batteria, mentre nella seconda la violenza rallenta e si fa largo la voce in pulito a comporre una canzone che in quasi quattro minuti racchiude le due anime dei The Agonist.
Subito dopo questa martellata arriva la perla di quest’album: ‘Ideomotor’ e i suoi otto minuti descrivono ancor meglio di ‘Panophobia’ gli Agonist del 2012, vari, freschi, violenti, inventivi e sperimentali. Una traccia che si articola in due parti: nella prima parte abbiamo un rollercoaster di momenti tiratissimi e altri più aperti e ariosi, mentre la seconda è completamente strumentale e condotta magnificamente da Marino & Co. Una traccia di otto minuti era un azzardo per la band, ma il rischio corso ci ha consegnato probabilmente la loro migliore canzone mai composta. Altre canzoni degne di nota sono ‘Dead Ocean’ e il suo riff di gojiriana memoria, dove i Nostri si testano su ritmi più lenti, i saliscendi di ‘Everybody Wants You (Dead)’ e le linee vocali da urlo di ‘Anxious Darwinians’. Purtroppo, di fronte a canzoni di alto livello (altissimo, nel caso della top tre), troviamo episodi meno riusciti, come ‘The Escape’, che probabilmente cede il passo a causa del fatto di venire dopo la opener-track, e la fiacca ‘The Mass of the Earth’, salvata in parta dalle vocals di Alissa. Non si tratta di pessime canzoni, sia chiaro, ma rispetto al resto della scaletta hanno una marcia in meno.
Con “Prisoners” i The Agonist hanno compiuto la naturale evoluzione di “Lullabies of the Dormant Mind”, smussandone i difetti, snellendone la struttura ma rendendola pù coesa: se il terzo album è di solito la prova del nove per una band, con questo i canadesi segnano definitivamente la loro maturità, regalandoci un gran bel disco, non esente da difetti, ma che ha permesso di costruire le fondamenta di un sound personale.
Nonostante ciò, “Prisoners” è l’ultimo album della band con Alissa alla voce, causa sua dipartita destinazione Arch Enemy: la sostituta Vicky Psarakis si è inserita bene, pubblicando un buon album (“Eye of the Providence”, inferiore all’oggetto di questa recensione ma comunque di buon livello), ma è stato un fuoco di paglia, dato che con l’ultimo “Five” la band ha fatto un brusco passo indietro. Più che al microfono, il problema sembra essere nella composizione e nel songwriting: fermo restando che personalmente ritengo che gli Arch Enemy con Alissa e “War Eternal” abbiano risollevato in parte le loro sorti. Che la chiave di questa involuzione dei The Agonist risieda proprio nell’abbandono della loro cantante?
Ai posteri l’ardua sentenza: nel frattempo, cari lettori, riscoprite “Prisoners” , un piccolo grande disco che non è riuscito a tagliarsi lo spazio che meritava nel panorama metal, e che fa capire come ogni sottogenere del metal stesso abbia sempre qualcosa da offrire.
Leonardo Cervio